22/11/13

(Dieci grandi anime) - 3. Clive Staples Lewis (5-fine)





(mi sono accorto soltanto ora che questo post - per un mero caso, visto che ieri ho 'saltato' un giorno, viene pubblicato, è stato pubblicato, proprio il giorno esatto della morte di C.S.Lewis, 22 novembre 1963, una 'casualità' che sarebbe molto piaciuta al diretto interessato). 


(Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (5-fine)    


Il cristianesimo che interessa Lewis, il cristianesimo che Lewis non si stanca di ‘propagandare’ è quello che nella sua vita ha avuto un significato particolare: quello di mettere ordine e sistematizzare valori e principi.  La fede in Cristo è stata riconosciuta perché estrema sintesi di un duro percorso di sofferenza e di autoconoscenza, condiviso con gli altri esseri umani che vivono su questa terra.
La fede cristiana è quella vera perché in essa si riconosce pienamente la legge della natura umana, del Giusto e dell’Ingiusto, la legge morale che è inscritta nel cuore di ogni uomo.
     La sola busta che mi è consentito di aprire, scrive Lewis, è l’uomo. (12)
     
L’uomo è fatto di legge morale, che – sostiene Lewis – è dura come il ferro. Se Dio assomiglia alla legge morale, allora anche Dio “non è affatto tenero”.  Ma Dio non è il male, il male è un parassita, non un’entità originaria.  Per il cristianesimo, scrive ancora, come per il dualismo, il nostro universo è in guerra.  Ma per il cristianesimo non si tratta di un conflitto tra potenze indipendenti, bensì di una guerra civile, di una ribellione. E noi viviamo in una parte dell’universo occupata dal ribelle.  (13)
     
Vivere nella parte di universo occupata dal ribelle significa essere esposti al male, alla corruzione, al dolore, alla morte.   E Lewis lo sa bene, lo sperimenta.    Come un vero anacoreta deciso a resistere, però,  Lewis ha trovato anche la forma di riscatto più concreta nel lasciare briglie sciolte ai voli della sua fantasia di scrittore.   In fondo tutta la saga delle fortunatissime Cronache di  Narnia può essere letta, ed è letta ancora oggi, come una formidabile allegoria del senso e della trasformazione cristiana.
Senso e trasformazione che passano attraverso il sacrificio, e l’attraversamento delle inevitabili prove personali.

Nello straziante lutto seguente la morte dell’amata Joy, Lewis lo esprime con lucidità: non c’è un altro modo per sfiorare, avvicinare  la Sua conoscenza, se non fare i conti con la nostra umanità, su questa terra. 
     Queste note parlano di me, di H. (14)  e di Dio. In quest’ordine.  L’ordine e le proporzioni sono l’esatto contrario di quelli che avrebbero dovuto essere.  E vedo che in nessun punto mi è accaduto di rivolgermi all’uno o all’altra con quel modo del pensiero che chiamiamo lode.  Eppure, sarebbe stata per me la cosa migliore.  La lode è il modo dell’amore che ha sempre un elemento di gioia.  Lode nel giusto ordine: di Lui come donatore, di lei come dono.  Non godiamo forse un poco, nella lode, ciò che lodiamo, anche se ne siamo lontani?   Devo farlo più spesso.    Ho perduto la fruizione che un tempo avevo di H.  E sono lontano, lontanissimo, nella valle della mia dissomiglianza, dalla fruizione che potrò forse un giorno avere di Dio, se la Sua misericordia è infinita.     Ma con la lode posso ancora, in qualche misura, godere lei, e posso già, in qualche misura, godere Lui. (15)

E’ così che Lewis ha messo in pratica – nell’attraversamento delle profondità dell’esistenza, successo, caduta, estasi e perdita, gioia e dolore -  quella che lui stesso chiamava “un nuovo tipo di vita”, quella che – secondo le sue parole – è cominciata in Cristo, “nuovo tipo di uomo” e si è trasmessa a noi. 

(segue -5 - fine) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

     
12.      Il Cristianesimo così com’è op.cit. pag. 49.
13.      Il Cristianesimo così com’è op. cit. pag. 72.
14.      H. sta qui per Helen, ovvero Helen Joy Davidman Greshman. E non è forse un caso che nelle pagine di Diario di un dolore la moglie sia sempre chiamata H. cioè Helen, e non più Joy.
15.       Diario di un dolore, op. cit.  pag. 70

20/11/13

(Dieci grandi anime) - 3. Clive Staples Lewis (4)



(Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (4)    

Ma è proprio quel papista e quel filologo -  Tolkien - a spalancare a Lewis le porte di una nuova comprensione di quel Cristianesimo rifiutato nell’adolescenza, proprio a partire dai vecchi miti pagani, i quali  tutti indistintamente parlano di morte e resurrezione.

Per Lewis è una vera e propria illuminazione.   E’ la nascita dell’esclusiva compagnia degli Inklinks (in italiano  gli Imbrattacarte ), molto più che un salotto letterario,  un sodalizio di artisti che segnerà la vita culturale britannica dagli anni ’30 agli anni ’50.

Nel settembre del 1931 l’occasione è fornita da una lunga conversazione notturna con Tolkien Charles Williams, autore del celebre The Place of the Lion, e Hugo Dyson.  Tolkien  suggerisce all’amico  che il Cristianesimo si presenta come l’unica verità nella quale è possibile riassumere, comprendere e sciogliere i miti pagani e le credenze degli antichi. Il Cristianesimo, alla luce di quelle considerazioni, comincia ad apparire agli occhi di Lewis non solo e soltanto come religione o filosofia in senso stretto – lo scrive in Surprised by joy – ma come “riassunto e attualizzazione” di ogni mito e cultura preesistente.
      Sono appena passato dal credere in Dio al credere definitivamente in Cristo [...]. La mia lunga chiacchierata con Dyson e Tolkien ha certamente a che fare con questo, scrive in una lettera all’amico di infanzia Arthur Greeves.

 Dopo una settimana Lewis comunica agli amici la sua conversione al Cristianesimo, tre mesi dopo, il natale dello stesso anno, riceve la comunione.
Anche se Lewis ha smesso di cercare Dio, Dio è tornato a farsi presente.  E il modo in cui è tornato a farsi presente, sotto forma di quelle nuove suggestive amicizie culminate in interminabili conversazioni notturne, lo scrittore lo spiega nelle ultime pagine di un altro suo libro, Prima che faccia notte (9):
     Quanto a Dio, dobbiamo ricordare che l'anima è solo una cavità che egli riempie. Non è forse vero - domanda Lewis - che le vostre amicizie più durevoli sono nate nel momento in cui finalmente avete incontrato un altro essere umano che aveva almeno qualche sentore di quel qualcosa che desiderate fin dalla nascita e che cercate sempre di trovare, sotto il flusso di altri desideri e in tutti i temporanei silenzi tra le altre passioni più forti, notte e giorno, anno dopo anno, fino alla vecchiaia?... Se questa cosa dovesse finalmente manifestarsi - se mai dovesse sentirsi un'eco che non si spegnesse subito ma si espandesse nel suono stesso - voi lo sapreste. Al di là di ogni dubbio possibile direste: "Ecco finalmente quella cosa per cui sono stato creato". Non possiamo parlarne gli uni agli altri.  E’ la firma segreta di ogni anima, l'incomunicabile e implacabile bisogno”.  Quello che voi agognate vi invita a uscire da voi stessi. Questa è la legge suprema - il seme muore per vivere . L'"io" esiste perché possa abdicare; e, con questa abdicazione, esso diventa più veramente "io". (10)     
     
Questo aprirsi agli altri, questa abdicazione dell’io – con tutte le sue fatiche e resistenze -  è testimoniata come forse meglio non si potrebbe dalla vita stessa di Clive Staples Lewis. In fondo egli non cercò altro che il riflesso negli altri di quel qualcosa che desideriamo fin dalla nascita e cerchiamo sempre di trovare.  Un fine ultimo che non è possibile sperare di raggiungere senza passare dall’altro che è fuori di me, da quello che evangelicamente è il prossimo.
Lewis lo spiega in modo paradigmatico in una splendida pagina de Il cristianesimo così com’è:

     Posso ripetere “fa’ agli altri ciò che vuoi sia fatto a te” fino a rompermi le corde vocali, ma non riuscirò ad agire così finché non amerò il mio prossimo come me stesso; e non posso imparare ad amare il prossimo come me stesso se non imparo ad amare Dio; e non posso imparare ad amare Dio se non imparo ad obbedirGli.  Sicché, come vi avevo avvertito, siamo sospinti verso qualcosa di più intimo – dalle questioni sociali alle questioni religiose.  Perché la via più lunga è la più breve per arrivare in porto. (11) 


(segue -4./) 

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9.     Prima che faccia notte, che raccoglie scritti inediti di C. S. Lewis, a cura di E.Rialti, con prefazione di T.Howard,  è pubblicato in Italia da BUR, Milano, 2005.
10.     Prima che faccia notte, op.cit. pag. 127
11.      Il Cristianesimo così com’è, op. cit. pag. 118.

19/11/13

(Dieci grandi anime) - 3. Clive Staples Lewis (3)





(Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (3)    

In effetti anche la ricerca di Clive Lewis riguardo la fede sembra oscillare, umanamente tra gli opposti di una fede radicalmente – e razionalmente – vissuta come vera, e i dolori di una ‘assenza’ di Dio che viene avvertita nelle notti buie del dolore.
Quel vestibolo, descritto prima, può sembrare anche un luogo molto molto oscuro.
Anni fa -  scrive in Diario di un dolore - dopo la morte di un amico, la certezza che la sua vita continuava, che anzi continuava su un piano più alto, fu per qualche tempo una sensazione nettissima.   Ho supplicato che mi venga data anche solo la centesima parte di quella assicurazione per H. (è Joy, la moglie scomparsa ndA) . Non c’è risposta.  Solo la porta sbarrata, la cortina di ferro, il vuoto, lo zero assoluto.  “Chi chiede non ottiene.” Sono stato uno sciocco a chiedere. Perché ora, anche se quella assicurazione venisse, ne diffiderei. La crederei un’autoipnosi indotta dalle mie preghiere. (6)

Ma più avanti, nello stesso testo, nel vestibolo compare una parvenza di luce, e la porta non è più così sbarrata.
Quando pongo queste domande davanti a Dio, non ricevo nessuna risposta. Ma è un “nessuna risposta” di tipo speciale.  Non è la porta sprangata.  Assomiglia piuttosto a un lungo sguardo silenzioso, e tutt’altro che indifferente. Come se Lui scuotesse il capo non in segno di rifiuto, ma per accantonare la domanda.  Come a dire “ Zitto, bimbo; tu non capisci. “ (7)

Il problema è sempre nella risposta, come si vede. Nell’elaborazione dei pensieri  anche contraddittori – è facile per ognuno che abbia vissuto il lutto di una persona cara, riconoscersi – nel flusso di sentimenti contrastanti, c’è anche spazio per una sintesi di grandiosa efficacia.
Una risposta, fin troppo facile, è che Dio sembra assente nel momento del nostro maggior bisogno appunto perché non esiste. Ma allora perché sembra così presente quando noi, per dirla con franchezza, non Lo cerchiamo? (8)
Parole che parlano – a cuore aperto – della vita vissuta da Clive Staples Lewis.

Probabilmente, a quel che egli stesso racconta nella sua autobiografia, anche Lewis era giunto ad archiviare la ‘pratica Dio’ quando, dopo aver abbandonato la fede cristiana, inizia ad insegnare Lingua e Letteratura Inglese alla prestigiosa università di Oxford (dove eserciterà per ben ventinove anni) . L’impegno accademico lo assorbe completamente.  C’è meno tempo adesso, per pensare alle questioni ultime, e forse è un bene così.  Si dedica invece con dedizione allo studio dei miti, compone poemi in versi ispirati alle leggende arcaiche e alle tradizioni nordiche.


Ma ecco che la questione ritorna. E ritorna sotto forma di una amicizia. John Ronald Reuel Tolkien, il futuro autore de Il Signore degli anelli e di Silmarillion  ha sei anni più di Lewis.  Anche Tolkien ha perso prematuramente la madre, a soli dodici anni.  Anche la famiglia di Tolkien ha radici cristiane, anche se cattoliche. Anche Tolkien ha combattuto nella Grande Guerra, in prima linea sul fronte occidentale.  E come lui, condivide un profondo interesse per la mitologia e insegna ad Oxford.  Una specie di gemello, o di fratello maggiore, per Lewis. Ed è forse proprio questa somiglianza a suscitargli una certa diffidenza. Scrive ironicamente  in Surprised of joy:  Alla mia venuta in questo mondo mi avevano (tacitamente) avvertito di non fidarmi mai di un papista, e (apertamente) al mio arrivo nella facoltà di inglese di non fidarmi mai di un filologo. Tolkien era l'uno e l'altro.

(segue -3./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

       
6.     Diario di un dolore, op.cit. pag.14.
7.     Diario di un dolore, op.cit. pag.78.
8.     Diario di un dolore, op.cit. pag. 13.

18/11/13

(Dieci grandi anime) - 3. Clive Staples Lewis (2)





(Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (2)    

Ma la prova più difficile è quella che deve affrontare nella piena maturità della sua vita, quando, dopo molta solitudine, l’incontro con Joy – la bella americana che ha conosciuto per lettera – sembra spalancargli le porte di una felicità insperata: non è così.  Pochi mesi dopo il matrimonio con rito civile, la donna comincia ad accusare sintomi di quella che viene diagnosticata, all’inizio, come una reumatite.  Ma esami più approfonditi rivelano l’esistenza di un tumore alle ossa, già piuttosto esteso. Quando viene celebrato il matrimonio religioso, nel marzo del 1957, sembra che la fine sia ormai vicina.  Invece, nell’estate seguente, Joy migliora sensibilmente. A tal punto che la coppia di sposi parte per un viaggio in Irlanda, poi, l’anno successivo  in Grecia.  Ma la malattia ben presto prende nuovamente il sopravvento.  Joy muore nel luglio del 1960.

Sarà proprio l’esperienza di questo spaventoso lutto a generare la nascita di quel capolavoro, Diario di un dolore, che Lewis scrive di getto nei mesi seguenti la morte di Joy, e che pubblica sotto pseudonimo.

Un grido, una protesta -  che non mette mai a soqquadro il cielo, ma chiede risposte, e resta inconsolabile -  percorre tutto il libro, che si legge oggi come un moderno lamento di Giobbe.
Parlatemi della verità e della religione, scrive Lewis,   e ascolterò con gioia.  Parlatemi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite. (3)

Perfino l’ultimo atto della vita terrestre dello scrittore si concluderà con una specie di beffa.  Lewis infatti si ammala ai reni e al cuore, e muore pochi soltanto tre anni dopo la sua compagna, proprio nello stesso giorno – 22 novembre 1963 – in cui il fucile di Lee Harvey Oswald uccide a Dallas John Fitzgerald Kennedy.   E’ chiaro che – scosso da questa grande tragedia – il mondo si dimentica di Lewis, e anche della sua morte.

Ma, a parziale riparazione di quel momentaneo oblio, c’è da dire che mai come oggi l’opera di Lewis è letta, riscoperta e amata in tutto il mondo. Eppure, si tratta di un’opera ben variegata, e di difficile interpretazione, dove è possibile trovare di tutto, dai testi di introspezione filosofica,  alle saghe allegoriche, ai romanzi di pura fantascienza, dalle opere puramente accademiche ai libri per ragazzi.

Se c’è un filo rosso che attraversa interamente questa opera, è però sicuramente quella ricerca, quasi quella ossessione, di un oltre, di una sostanza segreta dietro l’apparenza di tutte le cose,  cui abbiamo già detto, e che Lewis stesso definiva ‘gioia’.
Un cammino che lo scrittore ha definito - nei racconti autobiografici  - lungo, faticoso  e senza un arrivo stabilito una volta per tutte.
     
Quando prova a descrivere tempi e modi di questa ricerca, Lewis, fa ricorso ad immagini molto concrete, ed è anche questo che lo rende così popolare, così immediatamente comprensibile. In quello che è il suo saggio forse più famoso -  Il cristianesimo così com’è (4) - trascrizione di una serie di conversazioni radiofoniche , così scrive:
Il cristianesimo puro e semplice proposto qui, scrive Lewis, è simile a un vestibolo in cui si aprono porte che danno in varie stanze… Il vestibolo è un luogo dove stare in attesa, un luogo da cui tentare varie porte, non un luogo in cui vivere.   Alcuni, è vero, dovranno attendere nel vestibolo per un tempo considerevole, altri sanno con certezza fin quasi dal primo momento a quale porta bussare. Io non so perché ci sia questa differenza, ma sono sicuro che Dio non fa attendere nessuno se non vede che l’attesa gli giova.

     Quando entrerete nella vostra stanza scoprirete che la lunga attesa vi ha arrecato un beneficio che non avreste avuto altrimenti. Ma dovete considerarla un’attesa, non una sistemazione definitiva.    Dovete continuare a pregare per aver luce.  (5) 

(segue -2./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

      
3.     Diario di un dolore, op. cit. pag. 31.
4.   Mere Christianity (based on radio talks of 1941-1944), è edito in Italia da Adelphi con il titolo Il cristianesimo così com’è,  Milano, 1997, traduzione di Franco Salvatorelli.
5.     Il cristianesimo così com’è, op.cit. pag. 21. 

17/11/13

Dieci grandi anime - 3. C.S.Lewis (1)



     
 (Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (1)    


     3Clive Staples Lewis


Credo sia difficile trovare una vita più esemplare di quella di Clive Staples Lewis, come appare dal resoconto che egli stesso ne ha fatto e dal racconto dei molti biografi - tutta giocata sulla drammatica dicotomia gioia-dolore.  In effetti la vicenda umana del grande scrittore irlandese si può riassumere semplicemente in questi due estremi e in un confine poco ampio  tra queste due parole. 

Sorpreso dalla gioia si chiama l’autobiografia scritta e pubblicata da Lewis nel 1955. (1)  Il titolo non è casuale. Da molti anni, prima di quella data, lo scrittore ha usato quella parola – joy – per descrivere il fine della ricerca con l’assoluto, con Dio.   Joy è quel sentimento indescrivibile  indistinto intorno a cui tutta l’opera di Lewis sembra ruotare, che comincia ad affascinare lo scrittore quando egli è poco più di un ragazzo. All’inizio è semplicemente il piacere fisico che deriva dalla lettura delle grandi saghe, dei miti del nord,  delle opere di John Donne e di Milton.  Poi si trasforma in un misto di amore per la natura, fascino per il mistero e l’insondabile, propensione a conoscere e svelare gli arcani che si celano dietro un destino, respiro di un disegno divino dietro l’apparenza delle cose.   Questa gioia prenderà, durante la vita di Lewis strade diverse e apparentemente contraddittorie: a soli 15 anni abbandona la fede cristiana con motivazioni molto dettagliate, espresse proprio nella autobiografia.  E’ un distacco dalle stesse radici famigliari:  il padre, Albert James Lewis era un avvocato con ascendenze gallesi, cattolico; la madre, Flora Augusta Hamilton veniva da una famiglia molto religiosa, suo padre era un pastore protestante. Sembrerebbe un distacco definitivo.

Ma nel 1931 Lewis fa ritorno al cristianesimo con una profonda conversione (nelle pagine autobiografiche di quel periodo c’è la descrizione ancora più circostanziata di quello spirito di gioia) e l’adesione alla chiesa anglicana, alla vigilia della esplosione di un successo letterario enorme, che farà di lui uno degli autori più popolari di lingua inglese nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale.

Quella parola – joy – ha però in serbo altre sorprese per lui: si presenta infatti, molti anni più tardi, quando ormai è uno scrittore celebre, sotto forma di un nome proprio, di una persona che sconvolgerà la vita di Lewis.  Un incontro fatale maturato dapprima attraverso una corrispondenza: comincia a scrivergli, alla fine del 1950, una donna americana, poetessa dilettante, che si dichiara appassionata lettrice delle sue opere. Si chiama Helen Joy Davidman-Greshman, ha trentasette anni, un marito con il quale non va più d’accordo, e due figli.  Si è convertita da poco al cristianesimo grazie anche alla profonda impressione che le ha suscitato la lettura dei libri di Lewis. Forse anche nella speranza di incontrare e conoscere lo scrittore, si trasferisce nel 1953 In Inghilterra, a Londra, insieme ai figli, dopo aver concordato un periodo di separazione dal marito, che si concluderà con la concessione del divorzio, nello stesso anno.    Joy e Lewis cominciano a scriversi lettere dapprima formali, e che riguardano soprattutto i romanzi dello scrittore. Poi, entrano sempre più in confidenza, decidono di incontrarsi. Scoppia, imprevedibilmente  (Clive ha all’epoca cinquantacinque anni) l’amore.  I due si sposano dapprima civilmente – per permettere alla donna il rinnovo del permesso di soggiorno che le è stato negato dalle autorità inglesi - nel 1956, e l’anno seguente anche con rito religioso.

Clive Lewis scriverà nella sua autobiografia che questa singolare circostanza di chiamarsi Joy – proprio come la qualità spirituale che aveva cercato per tutta la vita -   avrà un peso particolare,  nel racconto di questa storia.

Una favola ?  
Non proprio, perché – come dicevamo all’inizio – la vita di Clive Staples Lewis è un continuo ondeggiare tra gioia e dolore.  Il dolore, anzi, sembra seguire quest’uomo, questo scrittore affermato, come un’ombra fedele durante tutta la sua vita.   Al dolore – anzi – finirà per dedicare un testo capitale (2).


Il dolore gli si presenta subito, il 23 agosto del 1908 – il piccolo Clive ha dieci anni -  quando muore la madre. E’ una perdita disperante, per un bambino dalla straripante immaginazione. E’ stata proprio l’adorata madre, Flora, ad iniziarlo all’amore per i romanzi e la letteratura. Il resto l’ha fatto il trasloco, al seguito del padre, nella nuova casa, un nuovo elegante ed enorme cottage immerso nella campagna – chiamato nel libro di memorie, Little Lea -  e la lettura dei libri di Beatrix Potter (l’inventrice di Peter Coniglio), di Mark Twain e di Edith Nesbit. La morte della madre cambia completamente il quadro di una infanzia felice e fantasiosa. Clive, insieme al fratello Warner (Warnie) più grande di tre anni, finisce al seguito di diversi tutori, scelti dal padre per proseguire lo studio delle lingue classiche, poi nel campo di concentramento -   così le definisce Lewis nella sua autobiografia – di severe scuole inglesi, infine al fronte, in guerra, dove gli capita anche, nel 1918,  di veder morire il suo migliore amico, Paddy Moore, e di essere a propria volta ferito, prima di essere ricoverato a lungo in ospedale e ammalarsi di depressione.

(segue -1./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 


1.      Surprised by Joy: The Shape of my Early Life è edito in Italia da Jaca Book, Milano, 1981, con il titolo Sorpreso dalla Gioia.

2.     A Grief Observed, pubblicato da Clive Staples Lewis con lo pseudonimo di N.W.Clerk nel 1961, è edito in Italia da Adelphi con il titolo Diario di un dolore, Milano 1990, traduzione di Anna Ravano.

16/11/13

Anna Netrebko - Quand'è che abbiamo abdicato all'estasi ?





E' molto interessante vedere questo video. Anna Netrebko, una delle più grandi soprano di oggi, esegue live Quando m'en vo, la celebre aria dalla Bohème pucciniana. 

La musica (se è vera musica) è sempre espressione di intelligenza (un recente studio dell'Università di Yale ha stabilito che il numero di neuroni cerebrali coinvolti in un cervello normale mentre si fa musica è di circa 6-7 miliardi, il più alto dato conosciuto tra quelli monitorati in qualsiasi altra attività umana).

Ma qui c'è qualcosa in più.

Mallarmé scriveva più di cento anni fa che il bambino ha abdicato alla sua estasi.  Che sembra il vero motivo della nostra (peggiorata) condizione umana.

Quand'è che ciascuno di noi ha cominciato a farlo ? Per quale sofferenza, per quale paura ?

Qui si assiste ad un trionfo d'estasi.  La Netrebko abbandona il mezzo - freddo e tecnologico - che propaga la sua voce. In preda ad una specie di trance gioiosa, si dà in pasto all'immensa arena di Berlino ed esegue il finale dell'aria senza nessuna amplificazione, con la nudità della voce.

Pura estasi.


15/11/13

100 anni fa la Recherche di Proust. Un articolo di Alessandro Piperno su Swann




Cento anni fa, ieri, esattamente il 14 novembre 1913, debuttava, dopo una serie di risposte negative di varie case editrici, "Dalla parte di Swann", primo volume del capolavoro di Marcel Proust "Alla ricerca del tempo perduto", che restera' nella letteratura mondiale. 

Editori Internazionali Riuniti celebra l'anniversario riproponendo, nella collana Asce, le "Poesie" (traduzione della poetessa Luciana Frezza), una silloge di componimenti editi in riviste, o in differenti raccolte di lettere, o in pubblicazioni di amici dell'autore, o in plaquettes di "versi ritrovati", o ancora inediti provenienti per lo piu' dall'archivio di Madame Mante-Proust e dal Fonds Marcel Proust dell'Universita' dell'Illinois a Urbana. 

Nella stessa collana e' presente anche il romanzo "Gelosia" (traduzione di Cristiana Fanelli) del maestro francese.



Alessandro Piperno Marcel Proust. Perché Swann (la vittima) è uno di noi

Chissà se tra le tante definizioni della Recherche non possa trovare spazio anche questa: la Recherche è la lunga impudica confessione di un saggista impazzito. Proust è alle soglie della mezza età, in piena sindrome Salieri: pensa che Dio gli abbia regalato il dono di saper riconoscere la bellezza, ma non di saperla inventare. Spinto dal risentimento, si mette a scrivere un saggio letterario contro Charles Augustin de Sainte-Beuve, uno dei più grandi scrittori francesi del XIX secolo. Ma ecco che questo astioso saggista, nonché romanziere fallito, trascinato dalle sue elucubrazioni, viene preso dalla smania di raccontarci i fatti suoi o, quanto meno, i fatti di un tizio che gli somiglia parecchio: da allora in poi non riesce più a fermarsi. Il risultato è il più fiabesco e, allo stesso tempo, il più nichilista romanzo mai scritto.

fonte ANSA  -  Corriere della Sera – la Lettura 10 novembre 2013

12/11/13

"Era morta mia madre - La mia Hiroshima personale." Una straordinaria intervista a Edgar Morin.




Domanda: oggi che lei ha 93 anni… Risposta: «Ah no, sono 92!». 

Edgar Morin siede quieto in giardino e ride solo con gli occhi, che sono di un azzurro infantile così incantevole da sgominare subito ogni tentazione d’imbalsamarlo come monumento vivente, di congelarlo nella deferenza dovuta a uno dei massimi pensatori del secolo. Nel suo caso non c’entra tanto una vita lunghissima, ma la straordinaria densità che l’ha segnata in ogni punto, come la sezione d’uno stagionato tronco d’albero a cerchi concentrici, dove quelli successivi dilatano i precedenti. L’infanzia nella famiglia di ebrei sefarditi («ma volevo fare il pompiere») e la Resistenza con Mitterrand («ammiratissimo per la temerarietà dai suoi fedeli, come un padrino… »). 

L’amicizia con Marguerite Duras in perenne competizione con Simone de Beauvoir («entrambe pensavano di essere l’una migliore dell’altra») e l’espulsione dal Partito comunista francese («un’esperienza necessaria per capire cosa possono diventare gli uomini»). L’incontro con Herbert Marcuse («incredibile, viveva in America, odiando quasi tutto dell’America: non aveva tivù, non andava al cinema») e le quattro mogli, l’ultima sposata due anni fa, senza mai diluire la costante fascinazione verso le donne: «Tranne ora… Sono stato il contrario di un seduttore: uno sedotto in permanenza. Magari da un viso intravisto per caso, come la faccia luminosa della luna. E il tempo va così veloce che non ce n’è mai abbastanza per vedere quella oscura».

Perciò, forse, per il teorico del “pensiero della Complessità” che con i sei volumi del suo Metodo ha rivoluzionato le scienze mettendo insieme biologia, cibernetica, sociologia, nulla quanto la propria vita è convincente per dimostrarne la tesi: tutto va visto cercando relazioni anziché dividendo le conoscenze. 

«Non c’è mai stata separazione tra me e le mie idee. Gioia, tristezza, amore sono le cose fondamentali della vita. Oggi gli economisti pensano che si possa ridurre tutto a numeri. Ma i calcoli sono una parte piccolissima degli umani: non possono misurare né capire la passione, il dolore, il piacere. In definitiva, non possono capire nulla». 

Anche nel suo delizioso memoir La mia Parigi, i miei ricordi (appena uscito, edito da Raffaello Cortina), tutto si mescola cercando nelle pietre della capitale gli umori di una vita. Eppure, dice Morin, nonostante un’avventura che si estende per quasi un secolo, tutto può essere racchiuso in un momento decisivo che ne spiega il segreto. Come il pezzo mancante per decifrare un alfabeto sconosciuto, e non importa la quantità di tempo impiegato a cercare: quando le lettere sono al loro posto ogni parola diventa trasparente. «Ho 10 anni quel 26 giugno 1931 quando esco da scuola e vedo mio zio davanti a un taxi. Ha un mezzo sorriso:i tuoi sono partiti per una stazione termale, per un po’ vieni a stare da noi. M’invade un’onda di allegria, in macchina per Boulevard de la Chapelle! Due giorni dopo sto giocando con mio cugino Freddy in un giardino vicino al cimitero Père-Lachaise. Sono accoccolato, perciò con lo sguardo che corre dal basso verso l’alto, vedo un paio di scarpe nere, pantaloni neri, una giacca nera e infine la faccia: l’uomo a lutto è mio padre. Mi sta guardando fisso e dice: non stare sull’erba, ti sporchi. E mentre lo dice, capisco tutto, capisco che mia madre è morta».

di Raffaela Carretta - 07 novembre 2013 per Io Donna - Il corriere della Sera. 

11/11/13

Presentazione del nuovo libro di Fr. MichaelDavide Semeraro - con Massimo Cerofolini, Fabio Colagrande e Fabrizio Falconi.




E' un bellissimo libro, questo di Fr. MichaelDavide Semeraro, che spicca nel novero numerosissimo delle pubblicazioni sul Papa Francesco, spuntate ovunque in questi mesi.

Se vorrete, ne parleremo insieme,  Giovedì prossimo, come leggete nella locandina qui sopra.

F.

10/11/13

Intervista a Ian Mc Ewan su 'Stoner' di John Williams:




Vi propongo oggi una intervista a Ian Mc Ewan, di  Sarah Montague: spiega perché Stoner, il romanzo di John Williams sia stato salutato (seppure pubblicato nel 1965) come uno dei più grandi del XX secolo: Stoner di John Williams. 

In Italia molti hanno amato e stanno amando questo libro e anche io qui ne ho parlato tempo fa. E' una intervista acuta e consapevole, che spiega anche il motivo perché nessuno dei romanzi scritti fin qui da Mc Ewan (con l'eccezione di Bambini nel tempo) o quelli di Javier Marias (altro ottimo scrittore, forse troppo prolifico e prolisso) possa essere paragonato ad un semplice, meraviglioso romanzo come Stoner. 


Cosa c'è di così bello in questo romanzo?
"Appena lo inizi a leggere senti di essere in ottime mani. Ha una prosa molto lineare. La trama, se ci si limita a elencare i suoi elementi, può suonare molto noiosa e un po' troppo triste. Ma di fatto è una vita minima da cui John Williams ha tratto un romanzo davvero molto bello. Ed è la più straordinaria scoperta per noi fortunati lettori".

È piuttosto singolare che dopo così tanto tempo un romanzo di cui non si è scritto né parlato, quindi sconosciuto, improvvisamente sia sulla bocca di tutti come sta accadendo adesso.
"È una vecchia storia. È successo con altri scrittori, pensi a Irène Némirovsky, che era piuttosto conosciuta in vita, poi dimenticata e poi di nuovo riscoperta. E poi anche il caso di Hans Fallada, che visse a Berlino, un altro caso di scrittore morto ed escluso dalla mappa culturale. E ora accade di nuovo, credo sia una scoperta gioiosa".

Dunque il romanzo parla della vita di William Stoner, che appare relativamente povera di accadimenti. 
"Relativamente. Stoner viene da una povera famiglia di contadini, frequenta la scuola di agraria, dove accede nel 1910 e segue, come ne esistono in un altro migliaio di università americane, un corso di Lettere e Filosofia. Il professore di letteratura durante una lezione legge il sonetto di Shakespeare n. 73 ("In me tu vedi quel periodo dell'anno") e qui lo studente ha un'epifania. Stoner lo ascolta e ne è trasformato, l'insegnante gli chiede cosa voglia dire il sonetto e tutto ciò che Stoner riesce a dire, flebilmente, è "significa...". E l'insegnante capisce immediatamente che il ragazzo è stato colpito dalla letteratura inglese. Stoner poi diventa un professore associato all'università e insegnerà fino alla sua morte, che avverrà molte decadi più tardi. Si sposa, il matrimonio va male, ha una figlia e anche la figlia va male, entra in una faida amara, o meglio è perseguitato da un collega per venticinque anni e conosce l'unico momento di riscatto della sua vita in una tenerissima storia d'amore che poi svanirà. C'è tutta la sua vita".

Ma è la scrittura, ovviamente, che ha conquistato lei e tutti gli altri. 
"Sembra aver toccato la verità umana come succede nella grande letteratura. È quel tipo di prosa che non vuole mostrarsi. È quel tipo di scrittura simile a una superficie di vetro, riesci a vedere immediatamente le cose di cui parla. E credo che questo sia entusiasmante di per sé. Ha una tale chiarezza, è una scrittura molto limpida. È straordinario ed è un avvertimento per tutti noi scrittori: potresti essere anche molto conosciuto in vita e poi, qualche anno dopo la tua morte, essere dimenticato".


Lei ha detto che la rappresentazione della morte di Stoner è un passaggio supremo della letteratura contemporanea. 
"Sì, noi esperiamo la morte di Stoner. È raccontata in terza persona, ma è molto in soggettiva, è scritta in maniera molto diretta. E quindi vediamo la rappresentazione della sua morte attraverso la percezione di quel momento dello stesso Stoner, tutta la vita che scorre davanti ai suoi occhi. E da lettore hai quasi la sensazione che il libro stesso stia morendo tra le tue mani e che il personaggio stia morendo tra le tue mani, tu stesso sembri percepire un po' della tua morte. La lettura delle ultime pagine è un'esperienza piuttosto forte".

Questo non sembra esattamente il tipo di storia da leggere sotto l'ombrellone.
"Semmai è vero il contrario. Non sarò mai abbastanza convincente nel sostenere che è questo il libro da portare in vacanza. Si insinuerà nelle stanze d'albergo, ovunque. Questa è una scoperta meravigliosa per tutti gli amanti della letteratura".

tratto da Repubblica.it


08/11/13

I due - Hugo von Hofmannsthal







I due

Lei portava la coppa in mano -
Pari al suo orlo aveva il mento e la bocca -
Aveva un passo così leggero e sicuro,
Che dalla coppa non cadeva una stilla.

Non meno leggera e salda era la mano di lui:
Un giovane cavallo egli montava,
E con gesto noncurante
A una tremante immobilità lo sforzava.

Eppure quando dalla mano di lei
La lieve coppa egli dové prendere
Per entrambi fu troppo pesante;
Perché entrambi tremavano tanto
Che le mani non si trovarono,
E scuro vino corse sul suolo.



Hugo Von Hofmannsthal  (Traduz. Elena Croce)

06/11/13

Epicuro e il giardino nel quale vorrei abitare.





Il corpo è stanco della tirannia della mente.

Sembriamo sempre più incapaci di abbandonarci, di mettere a dormire la mente, di dedicarci alle virtù che nobilitano l'essere umano. 

Incollati agli specchi riflettenti il nostro io (quello più superficiale) sembriamo diventati impermeabili all'ascolto di se stessi. 

Cambiare è possibile.

Nel 306 avanti Cristo un ateniese di nascita (ma ionico d’adozione), Epicuro, acquistò una casa nell’esclusivo quartiere di Melite e un piccolo giardino appena fuori dalla porta del Dipylon (la stessa strada che portava all’Accademia di Platone).
In questo giardino Epicuro – che ai tempi d’oggi abbiamo tristemente umiliato come epigono della filosofia del carpe diem, cioè della soddisfazione edonistica dei desideri (niente di più lontano da quanto egli ricercava e sosteneva) – edificò la sua Accademia, per un mondo che immaginava nuovo, per la conquista dell’ataraxia (la pace dell’anima o tranquillità spirituale).

I mezzi che Epicureo identificò sono gli stessi che anche oggi servirebbero a fare di un uomo una persona, e di un gruppo una comunità di umana, vera.

La principale virtù epicuree è l’amicizia: di tutti i beni che la saggezza procura per la completa felicità della vita, il più grande di tutti è l’acquisto dell’amicizia, scrive Epicuro.

Dalla amicizia discende l’importanza della conversazione. Non c’è piacere più grande né forma più alta di felicità mortale di una conversazione intelligente tra amici che sappiano ascoltarsi e trarre ispirazione, imparando gli uni dagli altri.

Con lo stesso spirito il filosofo greco raccomandava di coltivare la soavità nei modi e nel carattere. La soavità è agli antipodi della rudezza dei cinici, dell’altezzosità dei platonici e dell’austerità degli stoici.

Strettamente legata alla soavità è poi l’epieikeia, la considerazione per gli altri.  Che si manifesta attraverso la gentilezza, la civiltà, la cortesia, il rispetto.

C’è poi la franchezza nel parlare, contro l’adulazione e la ruffianeria.

E infine le ultime tre virtù pazienza, speranza e gratitudine, proiettate come disposizioni esistenziali verso le estasi temporali - presente (pazienza), futuro (speranza), passato (gratitudine).
Di queste, la più importante dice Epicuro è la gratitudine: la vita dello stolto,  scrive, è ingrata e sempre rivolta al futuro. 

Ecco:
amicizia, conversazione, soavità, considerazione per gli altri, franchezza nel parlare, pazienza, speranza, gratitudine. 

Ecco il giardino nel quale vorrei abitare.


05/11/13

Quel che abbiamo nel cervello - Numeri stupefacenti (il miracolo dell'intelligenza).





Nella foto sopra - cliccare per ingrandire - un neurone della regione ippocampale del cervello. Il nucleo, l’assone e i dendriti sono visualizzati utilizzando il gene GFP, che esprime una proteina fluorescente nella cellula.

Si pensa che in ogni cervello umano vi siano 100 miliardi (100.000.000.000) di neuroni.

Un singolo neurone - come quello in foto - è grande circa 10 micron. Il puntino sulla i che stai leggendo è grande 0,5 mm (500 micron). Quindi, se si considera che un neurone sia di 10 micron, potresti mettere in fila 50 neuroni lungo il diametro del punto di questa i.

Quanti sono 100 miliardi di neuroni ?

Pensa di contare tutti i 100 miliardi di cellule con una cadenza di una al secondo: quanto tempo ci metteresti?

Ci metteresti circa 3.171 anni .

C'è anche un altro modo di immaginare quanti siano 100 miliardi di neuroni.

Se i neuroni del nostro cervello potessero essere messi in fila formerebbero una linea lunga 1000 chilometri.

TUTTI i 100 MILIARDI DI NEURONI del nostro cervello sono:

1.Circondati da una membrana.
2. Hanno un nucleo che contiene i geni.
3. Contengono citoplasma, mitocondri ed altri "organuli".
4. Hanno prolungamenti specializzati che si chiamano dendriti e assoni.

I dendriti portano le infornmazioni al corpo cellulare, mentre gli assoni le portano dal corpo cellulare ad altre cellule.
I neuroni comunicano fra di loro grazie a processi elettrochimici.
I neuroni formano contatti specializzati che si chiamano sinapsi e producono speciali molecole chimiche chiamate neurotrasmettitori che vengono liberate dalle sinapsi a una velocità di circa 420 KM/h

informazioni tratte da Neuroscience.

04/11/13

Quel che c'è da sapere sull'amore - di Jalāl al-Dīn Rūmī,







Uno si recò alla porta dell'amata e bussò.

Una voce rispose: "Chi è là !"
Egli rispose: "Sono io".
La voce rispose: "Non c'è posto per Me e per Te."
La porta restò chiusa.

Dopo un anno di solitudine e privazioni egli ritornò e bussò.
Una voce da dentro chiese: "Chi è là !"
L'uomo disse: "Sei tu."
La porta si aprì per lui.



Jalāl al-Dīn Rūmī

(Scritta intorno all'anno 1250)

Vita di Rumi:
http://it.wikipedia.org/wiki/Gialal_al-Din_Rumi
Movimento Sufi:
http://www.movimentosufi.com
Dervisci Rotanti:
http://www.youtube.com/results?search_query=dervisci+rotanti&search_type=

03/11/13

La poesia della domenica - 'Er salice piangente' di Trilussa.






Er salice piangente.

- Che fatica sprecata ch'è la tua!
- diceva er Fiume a un Salice Piangente
che se piagneva l'animaccia sua -
Perchè te struggi a ricordà un passato
se tutto quer che fu nun è più gnente?
Perfino li rimpianti più sinceri
finisce che te sciupeno er cervello
per quello che desideri e che speri.
Più ch'a le cose che so' state ieri
pensa a domani e cerca che sia bello!

Er Salice fiottò: - Pe' parte mia
nun ciò né desideri né speranze:
io so' l'ombrello de le rimambranze
sotto una pioggia de malinconia:
e, rassegnato, aspetto un'alluvione
che in un tramonto me se porti via
co' tutti li ricordi a pennolone.


Trilussa, da Libro Muto, 1935.

02/11/13

Nel giorno dei morti, la morte secondo Einstein.





Nel giorno dei morti  risuonano queste parole di Albert Einstein.

L'essere umano è parte di quel tutto che chiamiamo universo.   Egli sperimenta se stesso come separato dal resto: un tipo di illusione ottica della coscienza.

A queste si aggiungono quelle del fisico Erwin Schroedinger:

Per quanto possa sembrare inconcepibile al senso comune, voi, e tutti gli altri senzienti, costituite un tutto indivisibile. 

Questi pensieri sono suggellati in un due versi del poeta Yves Bonnefoy:

Non c'è deserto più se tutto è in noi
Non c'è più morte. 





(Citazioni tratte da La morte si sconta vivendo, di M.Guzzi, in Sarà così lasciare la vita ? a cura di Livia Crozzoli Aite, Paoline 2001.).

01/11/13

L'annuncio sul giornale di Laurie Anderson per il marito scomparso, Lou Reed.


“Ai nostri vicini: Che autunno meraviglioso! Tutto luccica e splende come oro e tutta quella incredibile luce morbida. L’acqua ci circonda. 

Lou e io abbiamo passato molto tempo qui negli ultimi anni, e anche se siamo gente di città questa è la nostra casa spirituale. 

La settimana scorsa avevo promesso a Lou di portarlo fuori dall’ospedale per tornare a casa, a Springs. E l’abbiamo fatto! Lou era un maestro di Tai chi e ha passato i suoi ultimi giorni qui, felice, abbagliato dalla bellezza, e dalla forza, e dalla dolcezza della natura. 

E’ morto domenica mattina guardando gli alberi e facendo la famosa posizione 21 del Tai chi, con le sue mani da musicista che si muovevano nell’aria.

Lou era un principe e un combattente e so che le sue canzoni sul dolore e la bellezza del mondo riempiranno molta gente dell’incredibile gioia che aveva per la vita. Lunga vita alla bellezza che scende, attraversa e si impadronisce di tutti noi. 

Laurie Anderson, moglie innamorata e amica eterna”. 

Così  Laurie Anderson, la compagna di Lou Reed nel messaggio nel ricordo del marito, pubblicato ieri sul giornale locale The East Hampton Star.