11/06/17

Poesia della Domenica - "Parole" di Alfonso Gatto.




"Ti perderò come si perde un giorno
chiaro di festaa: - io lo dicevo all'ombra
ch'eri nel vano della stanza - attesa,
la mia memoria ti cercò negli anni
floridi un nome, una sembianza: pure,
dileguerai, e sarà sempre oblio
di noi nel mondo."
                    Tu guardavi il giorno
svanito nel crepuscolo, parlavo
della pace infinita che sui fiumi
stende la sera alla campagna.



Alfonso Gatto, da Arie e Ricordi
(1929-1941).




10/06/17

Archeologia: scoperto in Messico uno straordinario Tempio Azteco del "Dio del Vento".


Un gruppo di archeologi messicani ha scoperto un tempio azteco dedicato al dio del vento, Ehecatl, e un campo per il gioco della palla nel cuore della capitale, a pochi passi dalla cattedrale e dal Palazzo Nazionale, sede dell'esecutivo federale. 

 Le scoperte confermano testimonianze raccolte da alcuni dei primi spagnoli su quella che era allora Mexico-Tenochtitlan, la capitale dell'impero azteco, ha sottolineato Raul Barrera, uno degli esperti dell'Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (Inah). 

 "Fonti storiche raccontano che il 'conquistador' Hernan Corte's visito' il cosiddetto Recinto Sacro di Tenochtitlan in compagnia del 'tlatoani' (re) Moctezuma Xocoyotzin, che gli fece vedere i principali edifici. C'e' perfino chi dice che lo spagnolo pote' assistere a un gioco di palla", ha detto Barrera. 

 D'altra parte, le cronache di due religiosi, Duran e Torquemada, parlano di un tempio dedicato al dio del vento, descrivendolo come un edificio circolare con un tetto conico di paglia e un ingresso verso l'oriente, che rassomigliava alla bocca di una serpente. 

 Nella mitologia azteca, infatti, il dio Ehecatl era visto come una delle incarnazioni di Quetzalcoatl, il Serpente Piumato - la divinita' originale, che ha prodotto gli altri dei - il cui respiro muoveva il sole e spostava le piogge. 

Quanto al gioco della palla - in cui i giocatori usavano solo spalle, cosce, bacino e testa per centrare la 'porta', e cioe' un anello di pietra - era una pratica comune di tutte le civilta' precolombiane in America centrale e aveva un forte valore rituale e simbolico. 

09/06/17

Una Estate di Arte e Cultura al Vittoriano.



Musica, Letteratura, Cinema e Architettura: il Vittoriano diventa uno dei centri dell'estate culturale romana con un ciclo di eventi concepito nel monumento e per il monumento, a Vittorio Emanuele II, scrigno di bellezza, uno dei belvederi piu' belli del mondo, realizzato fra il 1882 e il 1911. 

Le iniziative realizzate dal Polo Museale del Lazio - al via dal 9 giugno e che rientra in ARTCITY-Estate 2017 - puntano a valorizzare il Vittoriano e promuoverne la conoscenza. "L'idea - ha detto oggi la direttrice Gabriella Musto, presentando il cartellone - e' stata quella di ampliare i percorsi dell'arte dedicando un ramo specifico all'Architettura, a due temi in particolare: lo sguardo delle donne sull'architettura e come l'architettura guarda alle donne; e poi, l'epoca dei millenials che ha fatto della velocita' della comunicazione quasi un modus vivendi". 

Gia' nell'estate 2016 il Polo Museale del Lazio ha organizzato con successo al Vittoriano un'importante serie di iniziative culturali a titolo gratuito. Il ciclo del 2017 parte da quest'esperienza positiva, ampliando ulteriormente l'offerta culturale e coinvolgendo spazi nuovi e ancora piu' ampi del monumento, ovvero la Terrazza Italia e il Piazzale del Bollettino. 

Tutti gli appuntamenti sono ad ingresso libero (il limite massimo degli spettatori e' fissato dalla capienza massima degli spazi messi a disposizione).

L'Architettura - L'attenzione per lo sguardo al femminile della professione domina il ciclo di quattro dialoghi dal titolo Con gli occhi delle donne. L'architettura e il design al femminile nella societa' dei millennials. Il ciclo e' curato da Gabriella Musto, direttrice del Vittoriano. I dialoghi si tengono sulla Terrazza Italia

Il Cinema - Un ruolo nevralgico gioca Anna Magnani, diva/antidiva del cinema italiano, in particolare durante il neorealismo. Il regista, critico e giornalista Mario Sesti cura nella Sala Zanardelli la mostra Anna Magnani: una vita per il cinema - aperta dal 20 luglio - e, stavolta nella Terrazza Italia, la rassegna di tre film con protagonista l'attrice. Il regista Giuliano Montaldo, in qualita' di Presidente dell'Accademia del Cinema Italiano - Premi David di Donatello, cura la selezione di tre documentari presentati nell'edizione 2017 degli stessi Premi David di Donatello. I documentari sono proiettati sulla Terrazza Italia.

La Musica - Il giornalista e critico Ernesto Assante cura una rassegna di quattordici concerti. La rassegna, che si apre il 9 giugno, vede per il jazz esibirsi Nicky Nicolai, Maurizio Giammarco, Giovanni Tommaso, Enzo Pietropaoli, Francesco Bearzatti, Enrico Rava, Fabio Zeppetella, Rosario Giuliani, Greta Panettieri, Marco Rinalduzzi, Maria Pia De Vito e Gege' Telesforo; per la musica classica Ezio Bosso e Ramin Bahrami, con I Solisti dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia. 

Un evento speciale stabilisce una sintonia fra la musica e la letteratura il 4 agosto, quando sul Piazzale del Bollettino lo scrittore e giornalista Paolo Rumiz legge la "sua" via Appia accompagnato dalla European Spirit of Youth Orchestra. Ha detto Edith Gabrielli, Direttore Polo Museale Lazio: " Il Vittoriano deve cercare gli italiani di oggi e non soltanto quelli di ieri, ecco perche' le varie iniziative culturali presso il monumento. Credo che il cinema possa essere, insieme alle altri arti, uno dei modi privilegiati per raggiungere questo obiettivo".

07/06/17

700.000 visitatori per il Blog di Fabrizio Falconi.




Continua questa bella avventura insieme.  

Vorrei ringraziarvi per aver tagliato il simbolico e significativo traguardo dei 700.000 visitatori per il nostro Blog. 

Questo spazio è diventato, oltre a una vetrina di aggiornamento di attività personali - i libri certo, ma anche le passeggiate romane, le curiosità romane -  una finestra sul mondo della cultura, con notizie di attualità e aggiornamenti di interesse comune.

Grazie per le vostre letture.

(in testa foto aerea della regione di Altfalter, Baviera, Germany). 

Una Cancellata intorno al Colosseo ?? " Si sta valutando".




Comunque voi la pensiate (e potete lasciarlo scritto nei vostri commenti), è una notizia non positiva per Roma. Che purtroppo rischia di diventare molto presto realtà. 

Roma, Raggi: per Colosseo Soprintendenza valuta idea cancellata In Parco archeologico c'è nuova autorità Roma, 7 giu.
(askanews) - 

"Per il Colosseo adesso c'e' la nuova autorità del Sopritendente per il Parco archeologico. Mi sembra che l'idea della recinzione sia quella prevalente". Lo ha detto la sindaca di Roma Virginia Raggi al termine della Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza appena conclusosi in prefettura, a chi le chiedeva se si fosse discusso del progetto di recinzione intorno all'area del Colosseo. 

06/06/17

Bob Dylan arriva il testo del ringraziamento per il Nobel: "La mia non è letteratura."



"La mia non e' letteratura". Sono solo canzoni "fatte per essere cantate e non lette". 

Bob Dylan ha inviato agli accademici del Nobel il suo discorso di ringraziamento per un il premio ricevuto ma mai fino in fondo onorato. Non ha fatto dichiarazioni, non ha ringraziato, non e' andato alla cerimonia di premiazione ha inviato in Svezia Patti Smith che ha eseguito il classico dylaniano A Hard Rain's A Gonna Fall

A rendere pubblica la lettera di ringraziamento il Segretario permanente del Nobel Sara Danius per la quale "Il discorso e' straordinario e, come ci si poteva aspettare, eloquente; ora che il discorso e' stato letto dall'Accademia, e' tutto regolare e Dylan e' a tutti gli effetti un premio Nobel"

Il messaggio e' arrivato con un audio link e Dylan ha spiegato di non considerarsi uno scrittore o un letterato. "Non appena ho vinto il premio - scrive - mi sono subito domandato quale legame ci fosse fra le mie canzoni e la letteratura»

Poi ha citato i suoi artisti preferiti, tra cui Buddy Holly che "mi ha cambiato la vita" e i suoi libri preferiti: Moby Dick, l'Odissea e Niente di nuovo sul fronte occidentale. Infine ha scrtitto: 

"Le canzoni sono vive in una terra di vivi. Le canzoni non sono letteratura. Nascono per essere cantate, non lette. I testi di Shakespeare sono fatti per essere portati in palcoscenico, cosi' come le canzoni sono fatte per essere cantate, non stampate su una pagina. E io spero che molti di voi ascoltino i miei testi nel modo per cui sono stati creati: cioe' in concerto, sui dischi o sui nuovi media. Vorrei citare ancora Omero che disse: Canta in me, o Musa, e attraverso me racconta una storia

02/06/17

"Il Carteggio Bellosguardo" - L'amore "impossibile" tra Henry James e Constance F. Woolson, un libro della Italo Svevo.


Una giovane scrittrice americana, nipote di uno dei padri di quella letteratura, si invaghisce del grande Henry James.  Con grazia lo insidia, gli scrive, finché lui un po’ si concede, almeno in parte. Così nelle ville che da Bellosguardo si affacciano su Firenze nasce un amore che non verrà mai realmente consumato. Ma che finirà per attraversare, se così possiamo dire, i carteggi che i due protagonisti si scambiano, entrare nelle loro opere e diventare letteratura. Questo racconto lo ripercorre, come nei frammenti del discorso di Roland Barthes, come l’archetipo di quelle passioni sospese e mai vissute.
 
Questa è la storia di un amore sghembo, frammentario e sospeso, difficilmente espresso e malamente corrisposto, dietro il quale si nasconde la più grande letteratura dell’ottocento.
Valerio Aiolli è nato a Firenze nel 1961, tra i suoi libri Io e mio fratello (Edizioni E/O, 1999), Luce profuga (Edizioni E/O,2001), A rotta di collo (Edizioni E/O, 2002), Fuori tempo (Rizzoli, 2004), Ali di sabbia (Alet, 2007), Il sonnambulo (Gaffi, 2014), Lo stesso vento (Voland, 2016).
 
LA COLLANA - PICCOLA BIBLIOTECA DI LETTERATURA INUTILE
L’energia intellettuale che da sempre caratterizza la città di Svevo, Saba, Bazlen e Stuparich, per una nuova editoria di cultura, intel­ligente e attenta alle esigenze dei lettori più raffinati.
La Italosvevo rinasce con una nuova collana di volumetti intelligenti e anticonvenzionali per contenere quel­la letteratura, di grande tradizione italiana, che non appartiene alla narrativa e difficilmente trova spazio nelle case editrici. Volumi di piccolo formato molto cura­ti nella veste grafica, copertina in brossura su carta di pregio con lunghe bandelle, ri­legatura filo refe, tagli laterali in tonso. Con questo nuovo progetto editoriale Italosvevo vuole catalizzare l’energia culturale che nasce dalla storica tradizione letteraria di Trieste e che tuttora ne fa una delle città più attive e ferventi, per esportarla in tutto il Paese. Il progetto della Italosvevo, rilevata Alberto Gaffi, la cui direzione editoriale è affidata a Giovanni Nucci, è di andare a cogliere questo fermento là dove storicamente è sempre, con una produzione letteraria particolarmente vivida, colta, intelligente e raffinata. Con un occhio di riguardo alla realtà triestina, pubblicando però indistintamente autori italiani e, se necessario, stranieri.
La collana «Piccola biblioteca di letteratura inutile» si muoverà negli spazi del reportage, delle divagazioni letterarie, divertissement, pamphlet, testi di letteratura filosofica o di saggistica dissacrante, brevi scritti morali. Nel segno della riflessione e della critica, dall’attenzione e dell’intelligenza, del sarcasmo e dell’ironia. La grafica curata da Maurizio Ceccato è moderna pur seguendo i dettami della grafica editoriale di più chiara tradizione.  I volumi finora usciti sono: Trittico di Hans Tuzzi, Piccolo dizionario delle malattie letterarie di Marco Rossari, Un ossimoro in lambretta. Labirinti segreti di Giorgio Manganelli di Patrizia Carrano, Sulla Poesia di Giorgio Caproni a cura di Roberto Mosena, Editori vicini e lontani di Cesare De Michelis, E due uova molto sode di Giovanni Nucci, Non è una questione politica di Alfonso Berardinelli.

01/06/17

Domitilla: chi era costei ? I restauri delle Catacombe sulla Ardeatina e le nuove scoperte sulla Roma Cristiana in Tempo Imperiale.





Il 30 maggio, nella basilica dei Santi Nereo e Achilleo in Viale delle Terme di Caracalla, una delle chiese paleocristiane di Roma più interessanti, sono stati illustrati i restauri nelle catacombe di Domitilla sulla via Ardeatina. All'incontro di presentazione, moderato da Paloma García Ovejero, vicedirettore della Sala stampa della Santa Sede, e introdotto dal cardinale Gianfranco Ravasi e da monsignor Giovanni Carru', rispettivamente presidente e segretario della Pontificia Commissione di archeologia sacra, sono intervenuti Norbert Zimmermann, direttore scientifico dell'Istituto archeologico germanico a Roma, e il sovrintendente della commissione, Fabrizio Bisconti. 

Riportiamo qui di seguito il testo Il Mito e il Tempo di Fabrizio Bisconti e a seguire Chi era costei ? Il testo su Domitilla di Gianfranco Ravasi, entrambi pubblicati da L'Osservatore Romano il 30 e il 31 maggio 2017.


Il Mito e il Tempo 
di Fabrizio Bisconti

L’incessante lavoro di restauro nelle catacombe cristiane d’Italia da parte della Pontificia Commissione di archeologia sacra, l’ente della Santa Sede che si occupa della tutela, della conservazione e della custodia di questi suggestivi cimiteri paleocristiani, ha prodotto in questi ultimi venticinque anni un cospicuo numero di scoperte o di riscoperte di affreschi, sarcofagi ed epitaffi, che meritano di essere conosciuti e valorizzati, in quanto testimonianza concreta del fenomeno della cristianizzazione, guardato nell’evolversi esponenziale dei primi secoli. 

Le scoperte più significative di questi ultimi anni — sempre anticipate nelle pagine culturali di questo giornale — hanno riguardato specialmente l’incalcolabile patrimonio pittorico dei cimiteri cristiani di Roma, che, con le circa quattrocento unità monumentali dislocate nella cinquantina di catacombe, che costellano il suburbio sino al III miglio delle strade consolari, rappresentano la testimonianza più concreta e leggibile della morte cristiana, guardata dai fratelli della prima ora come un sonno provvisorio in attesa della resurrezione finale. 



Dopo aver reso note le scoperte e i restauri delle catacombe di Santa Tecla, dei santissimi Pietro e Marcellino, di Priscilla, di San Callisto e dell’ipogeo degli Aureli, l’attenzione si è concentrata sull’immenso complesso di Domitilla sulla via Ardeatina. 

È parso utile — innanzi tutto — ricapitolare gli interventi, che hanno fatto rivivere gli affreschi dell’ipogeo dei Flavi, dell’arcosolio di Veneranda, del cubicolo di Ampliato, dell’arcosolio degli Apostoli Piccoli, che raccontano la storia della pittura delle catacombe dalle origini, degli inizi nel III secolo, al declino negli ultimi anni del IV. 

Ma le scoperte più interessanti sono venute da due cubicoli monumentali della piena età costantiniana, completamente ricoperti di una patina nera e da un numero impressionante di graffiti anche moderni

Con l’uso del laser i due cubicoli hanno mostrato i loro programmi decorativi in tutto il loro sviluppo, proponendo vere e proprie scoperte, anche se i due cubicoli erano noti da molti secoli. Il più noto e conosciuto già da Antonio Bosio si presenta ora come sepolcro di famiglia di un alto rappresentante dell’Annona, l’istituzione che si occupava dello stoccaggio delle derrate alimentari e, dunque, anche del grano e del pane. 

Ebbene, questo cubicolo monumentale accoglie, da un lato, un maestoso collegio apostolico, un buon pastore tra le stagioni e il ciclo di Giona e, dall’altro, un fregio che rappresenta il viaggio che il grano, che sbarca al porto di Ostia, effettua verso Roma dove viene macinato per diventare pane. 

L’altro cubicolo convoca nella volta alcune scene bibliche (i tre fanciulli nella fornace, la moltiplicazione dei pani, il sacrificio di Isacco, Noè nell’arca, Mosè che batte la rupe), che fanno da contorno a una scena di introduzione di due defunti al cospetto di Cristo maestro, tra due santi protettori, forse i martiri eponimi Nereo e Achilleo. 


Quest’ultima scena rappresenta la vera grande novità, che è venuta dal restauro, in quanto vuole esprimere il contatto che i defunti eccellenti vogliono intrattenere con il Cristo e con i santi. Con l’occasione si è anche pensato di creare un piccolo museo di nicchia in un ambiente adiacente all’ingresso della catacomba, con alcuni materiali marmorei (sarcofagi e iscrizioni) dispersi nelle catacombe romane o scoperti nel complesso di Domitilla per creare un filo conduttore, che si dipana dal II al IV secolo dell’era cristiana, e che svolge tre significativi temi iconografici, che animarono il pensiero dell’antichità e della tarda antichità, ovvero il mito, il tempo, la vita. 

Con questa nuova esposizione si vuole tracciare il percorso della civiltà antica, avvolta nell’affabulazione del mito, attraverso alcuni sarcofagi di produzione attica, recuperati per l’occasione dal grande giacimento dei marmi ritrovati nel complesso di Pretestato sulla via Appia Pignatelli. Le storie di Ettore e di Achille sfuggite agli studiosi del passato e riconosciute — sia pure in frammenti — da Matteo Braconi, propongono un immaginario struggente e drammatico, che vuole parlare di un’epopea dolorosa proiettata nella lontananza del tempo. A questo ultimo riguardo, un’arca marmorea monumentale, proveniente proprio da Domitilla, ci suggerisce la scansione regolare della vita con la personificazione delle stagioni. 

E la vita è fatta di otium, come racconta un sarcofago di caccia al cinghiale e al cervo, che si svolge in un luogo ameno, secondo quanto racconta il dolce mito di Endimione e Selene, rappresentato in un altro sarcofago frammentario. Il mito si inanella con il tempo e si proietta nella vita quotidiana, con scene, iscrizioni e incisioni cristiane che creano un mondo di bambini, argentieri, vinai, pastori, medici, oculisti, guardarobieri, cavallari, boscaioli, fossori. 

Con questo fervido e suggestivo mondo dei vivi si vuole anche parlare di un mondo altro, quello dell’aldilà, che viene tradotto in figura da un coperchio di sarcofago restaurato e reso noto per l’occasione: qui un gruppetto di pastori è fotografato in un habitat paradisiaco, dove sono anche rappresentate, per paradosso, scene di contabilità. Il mito, il tempo, la vita trovano una loro soluzione di continuità e ben si innestano su un labirinto catacombale, che racconta la storia infinita della salvezza attraverso gli affreschi restaurati, dopo le infinite vicissitudini sofferte nei secoli e specialmente, dopo il grave momento del “traffico delle reliquie”, nel corso del Settecento, quando le catacombe di Domitilla divennero cave di pitture strappate. 

Un volume concepito per questo evento (Catacombe di Domitilla. Restauri nel tempo, 2017) attraverso riproduzioni fotografiche ad altissima definizione, racconta i cantieri degli affreschi paleocristiani, i vandalici strappi del passato, i colori commoventi di un racconto figurato dislocato nel tempo e nella storia. 


Chi era costei? 
di Gianfranco Ravasi 

 La storia delle catacombe di Domitilla sulla via Ardeatina, le più estese del suburbio romano, con ben dodici chilometri di gallerie disposte su quattro piani, inizia sullo scorcio del I secolo

Alla base della loro denominazione c’è un piccolo enigma che riguarda la sua protagonista

Infatti, Eusebio di Cesarea, nella sua Historia ecclesiastica (III, 18), ricorda che una cristiana, Flavia Domitilla, nipote di Flavio Clemente, console di Roma, era stata deportata nell’isola di Ponza a causa della sua fede.

 Alla fine del IV secolo, Girolamo riferisce che la sua discepola Paola, veleggiando verso la Terra Santa, vide le carceri (cellulae) in cui la matrona romana Domitilla aveva trascorso la sua lunga prigionia (longum martyrium). 

Tale visione — ricorda il Padre della Chiesa (Epistula 108, 7) — infiammò l’animo devoto di Paola, tanto che il vento le sembrava troppo pigro a spingere la nave che la doveva condurre in Palestina per vivere là un’esperienza di consacrazione spirituale comunitaria a Dio. 

 Ora, il citato console Flavio Clemente era uno dei personaggi più in vista del tempo di Domiziano e la vicenda della sua nipote dimostra che, già al tramonto del I secolo, il cristianesimo era diffuso in ogni strato sociale e perfino nella famiglia imperiale. 

 Ma, secondo Svetonio (Vita di Domiziano 15, 1), il console era sposato con una nobildonna anch’essa di nome Domitilla, figlia di una sorella di Domiziano. I due figli della coppia erano stati designati come successori al trono imperiale, tanto che la loro educazione era stata affidata al grande pedagogo Quintiliano (Institutio oratoria IV, 2). 

Dalle fonti finora considerate risulterebbe, dunque, che Flavio Clemente fosse lo zio della prima Flavia Domitilla cristiana relegata nell’isola di Ponza e che, allo stesso tempo, fosse il marito di un’altra Domitilla che soffrì, insieme al marito, una persecuzione per la loro fede. Dione Cassio, poi, precisa che Domiziano perseguitò e persino tolse la vita a molti personaggi altolocati della Roma del tempo e, tra questi, anche al console Flavio Clemente, benché fosse suo cugino e avesse in moglie, come si diceva, sua nipote Domitilla.

 Ambedue furono accusati di ateismo e di essere adepti delle idee dei giudei e, per questo, Domitilla, moglie del console ucciso, fu relegata nell’isola Pandataria, cioè Ventotene (Historia Romana 67, 14). La maggior parte degli studiosi tende a vedere nelle due Domitille la stessa persona, duplicata solo nei nomi da una tradizione antica. Tuttavia la designazione dei due luoghi dell’esilio sembra confermarne la distinzione. Tra l’altro, le due isole, ossia quella di Ponza e quella Pandataria (Ventotene), erano attestate come luoghi abituali per la deportazione dei membri dell’entourage imperiale e da Tacito sappiamo che, al tempo di Domiziano, alcune nobilissimae feminae furono condannate all’esilio (Vita di Agricola 45). 

Anche i modi e i tempi della condanna sembrano distinguere le due Domitille. Eusebio, infatti, definisce esplicitamente “cristiana” la matrona, relegata quindi a Ponza per la sua fede. Svetonio, invece, attribuisce agli zii di Domitilla, Flavio Clemente e l’altra Domitilla, una condanna per tenuissima suspicio, quindi con l’accusa poco fondata di aver provocato, nel 96, l’uccisione di Domiziano da parte di Stefano, che era procuratore proprio di Domitilla (Vita di Domiziano 15, 1). In sintesi, la prima nobildonna sembra condannata per motivi religiosi, mentre la seconda per questioni politiche. 

 Il nome di Domitilla, comunque, è rimasto legato a un appezzamento di terreno molto esteso, situato al secondo miglio della via Ardeatina, nell’attuale tenuta di Tor Marancia, definito appunto praedium Domitillae da alcune iscrizioni funerarie dislocate nel sepolcreto che sorse nei primi secoli dell’impero e che comportò una densa concentrazione di recinti, di mausolei e di colombari. 

Dalla fine del II secolo l’area iniziò a essere sfruttata anche nel sottosuolo, con lo scavo di ipogei familiari, tra i quali uno completamente decorato ad affresco e dedicato, come attesta una iscrizione frammentaria — secondo l’ipotesi interpretativa dell’archeologo romano Giovanni Battista De Rossi — alla famiglia dei Flavi. 

Al di là di questa ipotesi, che dimostrerebbe una continuità della memoria dei primi proprietari dell’area suburbana della via Ardeatina, il sito archeologico ha restituito molti altri ipogei pagani, come quelli di Ampliato e dei Flavi Aureli che nel tempo divennero cristiani. Da questi ipogei si ramificò un ampio reticolo di gallerie, che diede luogo proprio alla celebre catacomba comunitaria detta di Domitilla. In questo grande cimitero cristiano furono sepolti i martiri militari Nereo e Achilleo, vittime della persecuzione dioclezianea, in quanto obiettori di coscienza, secondo la testimonianza di Eusebio di Cesarea che, al proposito, ricorda che «la persecuzione prese l’avvio con i fratelli che erano nell’esercito» (Historia ecclesiastica 8, 1, 7).

Il Pontefice agiografo Damaso (366-384) fece incidere dal calligrafo Furio Dionisio Filocalo una delle iscrizioni commemorative più commoventi, che ci è nota dalle sillogi medievali e da alcuni piccoli frammenti di una grande lastra marmorea, rinvenuti durante gli scavi dell’Ottocento. 

 Ebbene, questo epitaffio descrive il momento in cui i due militari, proprio mentre si apprestano a uccidere i cristiani, all’improvviso si convertono e abbandonano l’istinto crudele (subito posuere furorem) per diventare soldati vittoriosi di Cristo. È ciò che è rappresentato da una colonnina marmorea scolpita, rinvenuta nel complesso di Domitilla, con la raffigurazione del martirio di Achilleo. Papa Damaso fece costruire un piccolo ambiente martiriale attorno alle tombe dei due santi, mentre solo nel VI secolo fu realizzata una grande basilica semi-ipogea. 

Una basilica assai frequentata dai pellegrini e dal popolo romano, tant’è vero che il pontefice san Gregorio Magno (590-604), il 12 maggio di un anno da collocare verso la fine del VI secolo, pronunciò proprio qui un’accorata omelia.

 Dinanzi alla tomba dei due martiri soldati, il Papa di una Roma attanagliata dalla miseria, dalla fame, dalla peste, dalla minaccia dei longobardi, rievocava il mondo meraviglioso della Chiesa nascente, percorsa dalla grave prova della persecuzione, ma illuminata dalla fede inattaccabile dei martiri: «Ecco, il mondo tanto amato si dilegua. 

Questi santi, presso la cui tomba ci siamo raccolti, hanno saputo calpestare, con il disprezzo dell’animo, il mondo fiorente. La vita era semplice in quel tempo, la sicurezza continua, il benessere diffuso, la tranquillità e la pace caratterizzavano ogni giornata. Eppure un mondo tanto felice morì improvvisamente nei loro cuori (…). Oggi dappertutto è morte, lutto, desolazione, da ogni parte siamo percossi, da ogni parte amareggiati» (Omelie, 28)

31/05/17

"Il logista" di Federica Fantozzi - un Thriller di respiro internazionale.






Fa piacere, nell'intrico delle uscite editoriali italiane, dove sovrabbonda (a rischio saturazione) il genere giallo-thriller - evidentemente ritenuto sempre appetibile dai lettori - un libro giallo ben scritto, Il logista, che tiene fino alla fine e racconta una storia credibilmente articolata. 

Federica Fantozzi racconta di una giornalista probabilmente alter ego -  l'autrice dice di aver tratto ispirazione per questo libro dopo che il suo lavoro di reporter l'ha portata a seguire i tragici esiti dell'attentato al Bataclan di Parigi del novembre 2015 - che vive e lavora a Roma, frequentando i classici luoghi delle serate alcoliche di Ponte Milvio. 

E' in una mattina, in uno dei caffè della zona, che Amalia Pinter - questo il nome della protagonista - incontra un amico dell'Università,  Tancredi, perso di vista da tempo, al quale chiede supporto per il caso che sta seguendo: la morte di una giovane coppia di romani morti in un attentato - presumibilmente jihadista -  alle Maldive.  

Tancredi da anni si è trasferito a Londra, ma ha una vita segreta: ha fondato una società (chiamata Stinger) con la quale si è messo in strani traffici. 

Amalia dovrà scoprire di cosa si tratta e rischierà di finirne travolta quando, invitata a cena da Tancredi, che promette di svelarle qualche intuizione sulla morte dei due italiani,  lo trova morto accanto a una bottiglia di whisky e a della droga. 

Sembra un suicidio, ma ovviamente non lo è.  Tancredi, anzi, è la chiave di molte piste, come capisce subito Amalia mettendosi sulle tracce di quelli che lo conoscevano, uno zio, un amico libanese reticente. 

Comincia da qui, attraverso un calibrato dispensare di colpi di scena, la rincorsa di Amalia a quella verità sfuggente e anche onirica che le si presenta e che - come una prova di consapevolezza - deve affrontare, richiamata e al contempo messa in guardia dalla simbologia fatale dello scorpione, insetto pericoloso ed esteticamente notevole, che rappresenta la crudeltà inaspettata, fino a un gustosissimo epilogo che ha come teatro lo Stadio Olimpico di Roma durante una normale domenica calcistica. 

Insomma, questo potrà non piacere ai maniaci dell'esterofilia, i quali sembrano pretendere a forza che un giallo debba essere ambientato nelle gelate brughiere scandinave per essere allettante.  Non è così. E anzi, nell'intrigo internazionale, l'ambientazione romana - che l'autrice conosce molto bene - è il vero dato di forza di questo romanzo, che ha il dono della leggerezza, non della banalità.


Fabrizio Falconi





29/05/17

Lo straordinario Quartiere Coppedè, da progetto sperimentale a set per Dario Argento.




     C’è un luogo, in città, dove i romani vanno nelle sere grigie d’autunno, quando il vento raschia le foglie dall’asfalto, e le luci dei lampioni ondeggiano prima della tempesta,  quando vogliono assaporare il brivido insolito di un panorama urbano che sembra proprio non appartenere in nulla a quello consolidato e rassicurante di Roma,  ma che sembra piuttosto uscito dalla fantasia allucinata di un maestro dell’horror.

    Questo luogo è il quartiere Coppedè, che sorge quasi del tutto isolato in un piccolo quadrilatero di vie, nel più grande rione chiamato Trieste, non lontano dalla Via Nomentana.   Si tratta di una porzione di architetture omogenee, per l’esattezza ventisei palazzine e diciassette villini, ideati, progettati e realizzati tra il 1913 e il 1927 da un geniale architetto fiorentino, Gino Coppedè.

     Il suo cognome è rimasto talmente legato a questo luogo, che oggi si fa fatica perfino a trovare traccia fotografica del grande architetto,  nato il 26 settembre del 1866.   Le poche foto lo ritraggono con una folta barba e baffi dannunziani,  vestito sempre elegantemente, con sgargianti mocassini chiari, come lo sparato sopra  il papillon nero, il fisico prestante, lo sguardo fiero e penetrante.
     
       Coppedè, proveniente da una famiglia di architetti e di intagliatori,  mostrò da subito una spiccata propensione per il disegno eccentrico, sviluppando una personale interpretazione eclettica dello stile Liberty, che ebbe modo di esprimersi in diverse opere – come il castello Mackenzie a Genova, commissionato da Evan Mackenzie, fiduciario del Lloyds nel capoluogo ligure  e facoltoso collezionista d’arte -  ma soprattutto nel quartiere che prese il suo nome, a Roma e che gli fu invece commissionato dai finanzieri Cerruti, della Società Anonima Edilizia Moderna.  Qui, Coppedè pensò bene di provare a fondere in modo armonico elementi architettonici provenienti dal Barocco, dal medievale,  dal classicismo al più sfrenato manierismo. 

     Una impressione immediata di questo stile allucinato e straniante si ha appena varcato l’ingresso del quartiere di Via Tagliamento, passando sotto il possente arco che funge da ponte sospeso a tre piani  tra due palazzi chiamati degli Ambasciatori, dalla volta del quale pende un monumentale lampadario in ferro battuto, e oltrepassato il quale si giunge nella Piazza Mincio, ornata dalla celebre Fontana delle rane, doppio livello marmoreo dal quale si affacciano dodici rane che spruzzano acqua.  Voltando lo sguardo a 360 gradi, dal centro della piazza, si ha davvero la sensazione di essere inavvertitamente scivolati fuori dal tempo.  Sensazione che si rafforza non appena si iniziano a percorrere le vie del quartiere, che si dipanano a raggiera dalla piazza stessa e  sulle quali affacciano bizzarre costruzioni, come lo splendido Villino delle Fate, che sembra davvero uscito dalla fantasia di Lewis Carroll, con tutte le sue asimmetrie, le porte e le finestre, le scale,  i muri e i portici oscuri, tutti diversi uno dall’altro,  o come la Palazzina del Ragno che richiama le antiche costruzioni egizie.  
      Più che un quartiere, una scenografia. 

  Dichiaratamente a tal punto che lo stesso Coppedè stesso volle lasciare la sua ‘firma’ cinematografica proprio nell’ultimo palazzo del quale riuscì a seguire personalmente la realizzazione, e cioè quello che affaccia su Piazza Mincio, al civico numero 2 lasciando fra l’altro il suo blasone sul portone al fianco:  Artis praecepta recentis/ maiorum exempla ostendo.  Il portone di questo elegante villino – dallo strano effetto telescopico -  è infatti fotocopiato, per volere dell’architetto,  da una delle celebri scenografie del primo grande kolossal del cinema Italiano, Cabiria, realizzato da Giovanni Pastrone, nel 1914.
      
      Era perciò un destino che il quartiere Coppedè diventasse naturalmente, con gli anni, a sua volta, un ideale set cinematografico. Ed è anche comprensibile che lo diventasse -  a causa di questo suo fascino estroso, fantastico, gotico - di film terribilmente visionari come quelli girati dal regista Dario Argento, che scelse in diverse occasioni, proprio queste locations, per l’ambientazione dei suoi film.     
      Prima di lui, però, era stato Mario Bava, a intuire le potenzialità evocative di questo luogo come set cinematografico, nel film La ragazza che sapeva troppo, del 1962.  Mario Bava era considerato un maestro da Dario Argento, all’epoca in cui era ancora giornalista e critico cinematografico.
      Così,  per la sua  prima volta dietro la cinepresa, nel suo film d’esordio, L’uccello dalle piume di cristallo, girato nel 1969 e uscito nelle sale nel 1970, il regista romano scelse proprio il quartiere come ambientazione di alcune scene e implicito omaggio al suo maestro.   È la storia di uno scrittore americano, Sam Dalmas, interpretato da Tony Musante,  che di passaggio a Roma, assiste casualmente ad un tentativo di omicidio attraverso la vetrata di una galleria d'arte: un uomo sta accoltellando una donna.  La presenza e l'intervento di Sam mettono in fuga il colpevole, ma da quel momento in poi, una serie di omicidi sconvolgono la città e Sam si trova ad essere sospettato dalla polizia.  In una delle strade del Coppedè è ambientata la famosa scena in cui Sam/Tony Musante riesce miracolosamente a schivare la coltellata dell’assassino.

     Al quartiere poi, Dario Argento ritornerà con un altro film, dieci anni più tardi, Inferno, del 1980,  incentrato sulla storia di una giovane poetessa americana, Rose, che dopo aver acquistato un antico libro di alchimia, intitolato Le tre madri,  comincia a investigare sulle tre case costruite a Friburgo, Roma e New York,  dalle tre entità in questione, ovvero : Mater Suspiriorum, la Madre dei Sospiri, Mater Lacrimarum, la Madre delle Lacrime e Mater Tenebrarum, la Madre delle Tenebre. È ovvio a questo punto che per la casa romana, Dario Argento immaginò proprio una delle case del Coppedè.
     Non solo,  nel quartiere sembra proprio che Dario Argento abbia finito per trovarsi così bene da sceglierlo come abitazione .

     Ed ecco così la strana conseguenza per la quale anche lo stesso Argento ha finito per diventare il fantasma  - non è facile incontrarlo – di un quartiere che molti, soprattutto per effetto dei suoi film, hanno creduto e credono popolato di strane presenze. 

28/05/17

Poesia della Domenica: "A me pare uguale agli Dèi", di Saffo (Traduzione Salvatore Quasimodo).




A me pare uguale agli dèi 
chi a te vicino così dolce 
suono ascolta mentre tu parli 
e ridi amorosamente. Subito a me 
il cuore si agita nel petto 

solo che appena ti veda, e la voce 
si perde nella lingua inerte. 
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, 
e ho buio negli occhi e il rombo 
del sangue nelle orecchie. 

E tutta in sudore e tremante 
come erba patita scoloro: 
e morte non pare lontana 
a me rapita di mente. 
 
      [trad. di Salvatore Quasimodo]

27/05/17

Wenders: "In ogni sguardo che incroci c'è Dio."



"Rivolgersi al lavoro, al mondo e, in particolare, agli 'altri' e' diverso quando credi di essere guardato da un Dio che ti ama; quando quel Dio manifesta se stesso (o se stessa) in ogni volto umano, in ogni sguardo che incroci". 

Wim Wenders, regista tedesco, tra i piu' noti al mondo intervistato durante il Festival di Cannes, racconta il suo approccio personale e artistico alla spiritualita'. 

Spiega di aver compreso "il fatto che la fede potesse influenzarti come artista" quando, nel 1987, "ho aderito al progetto di un film poetico, totalmente improvvisato, quale 'Il cielo sopra Berlino'. È la storia di due angeli custodi che tengono d'occhio i propri protege's nella citta' di Berlino. Quando mi sono accorto che il compito piu' importante del film era cercare di rendere, di declinare, 'the Angel's gaze at people', lo sguardo degli angeli sulle persone, ma anche di mostrare come gli angeli ci vedono, questo mi ha fatto comprendere che tale opera ha avuto un altro effetto in me, mai sperimentato prima"

Aggiunge Wenders: "Il cinema in verità e' capace di farci guardare il mondo in maniera differente, di rivelarci realmente che uno sguardo di tenerezza e' di fatto possibile".  In particolar modo 'Il cielo sopra Berlino' "non solo ha schiuso dinanzi a noi il mondo visibile, ma ci ha permesso di cogliere dei frammenti di quello invisibile, di quello celeste. Col senno di poi, dunque, e' sembrato come se gli angeli che ho ricercato ed evocato nel film mi avessero concesso una grande lezione sull'atto del vedere".

24/05/17

Esce un libro tutto dedicato ai segreti di uno dei quadri più belli (ed enigmatici) del mondo: "I coniugi Arnolfini" di Jan Van Eyck




È uno dei dipinti piu' famosi al mondo e attira migliaia di visitatori nella sala della National Gallery di Londra dove e' esposto

Ma il "Ritratto dei coniugiArnolfini" di Jan Van Eyck potrebbe nascondere una storia molto diversa da quella, apparentemente ordinaria, che per secoli abbiamo accettato. 

Jean-Philippe Postel, medico e scrittore parigino, ha sottoposto il quadro a una sorta di analisi clinica che lo ha portato a risultati sorprendenti, raccontati nel godibilissimo libro "Il mistero Arnolfini", che in Italia esce per Skira. 




E tutto e' successo per colpa del celebre specchio al centro del dipinto. "Ho osservato un ingrandimento dello specchio - ci ha raccontato Postel nel corso di una conversazione a Milano - e ho notato che c'erano molte discordanze con la scena della stanza, c'erano molte anomalie. E siccome Van Eyck era un pittore estremamente meticoloso, estremamente attento a qualunque dettaglio, queste anomalie mi sono sembrate volute"



Una di tali discrepanze, forse la piu' evidente, e' che il cagnolino che si trova tra i due coniugi nello specchio non si riflette, ma, guardando molto da vicino, si scopre una serie di altri elementi misteriosi che riguardano la posizione della donna, le mani dei due protagonisti, una sorta di strana nuvola che sembra avvolgere l'uomo. 

E dallo studio di queste tracce, Postel arriva a formulare una affascinante ipotesi che riguarda lo stesso Van Eyck, visite di spettri, giuramenti infuocati e altre macabre situazioni. "Lo specchio dice la verita', come raccontano anche le favole - ha aggiunto lo scrittore - e se l'immagine nello specchio e quella nella stanza non sono piu' sovrapponibili... allora e' lo specchio a cui dobbiamo credere. E partendo da questo il dipinto racconta una storia diversa, che mi sono appassionato a ricostruire". Ricostruzione che, lo stesso Postel e' consapevole di avere portato a un punto in cui l'opinabilita' e' massima, seppur l'ipotesi sia comunque documentata. 

Ma quello che piu' conta, considerando il fatto che e' di un libro che stiamo parlando, e' la resa di questa storia, e' il meccanismo narrativo che la sostiene, il quale, fatti salvi pochi salti logici meno giustificati, funziona ed e' estremamente godibile. 

"Ci sono due dipinti in uno - ha concluso Jean-Philippe Postel - che mostrano due cose diverse, ma l'insieme dei due dipinti funziona, portando con se' un doppio significato". 

E una cosa e' certa, dopo aver letto il libro non si potra' piu' guardare agli Arnolfini, chiunque essi siano, con gli stessi occhi. 

23/05/17

Ai Musei Capitolini una imperdibile mostra dedicata al grande Pintoricchio.




Una mostra affascinante che raccoglie splendidi dipinti e racconta storie cortigiane della Roma tardo quattrocentesca.

 I protagonisti sono un Papa, il controverso Alessandro VI al secolo Rodrigo Borgia (1431, Papa dal 1492 al 1503), una dama raffinata e bellissima, Giulia Farnese (1475-1524), amante adolescente e concubina non troppo nascosta dello stesso Papa, e uno degli artisti più estrosi del nostro Rinascimento, Bernardino di Betto, detto il Pontoricchio (c.1454-1513). 

Un pontificato, quello di Alessandro VI, che assecondò intrecci dinastici, veleni di palazzo, calunnie e gelosie, ma nello stesso tempo incoraggiò le arti con la chiamata a Roma del Pintoricchio autore di uno dei cicli pittorici più famosi della storia dell’arte: quello del nuovo appartamento papale in Vaticano. 


L’appartamento Borgia, ricco di contenuti umanistici e teologici, opera fortemente innovativa per la sensibilità quasi rivoluzionaria con cui Bernardino di Betto interpretò col suo linguaggio “all’antica” il programma ideologico e politico di Alessandro VI.

Ammirata e osannata da quanti visitarono il nuovo appartamento papale, l’opera fu quasi totalmente ignorata da Giorgio Vasari che manifestò, invece, il suo interesse solo per la scena che ritraeva il Papa in ginocchio davanti alla Madonna col Bambino benedicente, ritenuta – secondo una diffusa voce di corte – il ritratto dell’amante del papa, la giovane e conturbante Giulia Farnese: “Sopra la porta d’una camera la Signora Giulia Farnese per il volto d’una Nostra Donna: et nel medesimo quadro la testa di esso Papa Alessandro”.

Il dipinto raffigura una Madonna col Bambino benedicente e, ai loro piedi, un Papa adorante. Ma l’opera, per la presunta presenza di Giulia Farnese nella figura della Madonna, causò infiniti scandali: fu prima coperta, poi strappata dalle pareti, infine dispersa in più frammenti. 


L’esatta composizione del dipinto, tuttavia, non andò perduta grazie a una copia realizzata nel 1612 dal pittore Pietro Fachetti. Per l’esposizione sono state selezionate 33 opere del nostro Rinascimento: ritratti della famiglia Borgia e raffinati dipinti di Bernardino di Betto, dalla Crocifissione della Galleria Borghese, alle Madonne della Pace di San Severino Marche e delle Febbri di Valencia fanno da giusta cornice alla ritrovata Madonna e al Bambin Gesù delle mani.

Saranno, inoltre, presentate 7 antiche sculture di età romana, provenienti dalle raccolte capitoline, poste in stretto dialogo con i dipinti dell’Appartamento Borgia (riproposti in mostra con fedeli gigantografie) con la finalità di documentare quanto il Pintoricchio abbia attinto all’antico per promuovere la “rinascita” artistica e culturale di Roma

Curatore/i Cristina Acidini; Francesco Buranelli; Claudia La Malfa; Claudio Strinati 
Catalogo Gamgemi Editore 
Luogo Musei Capitolini 
Orario Dal 19 maggio al 10 settembre 2017 
Tutti i giorni ore 9.30-19.30 
 La biglietteria chiude un'ora prima

22/05/17

Jung e la Perdita del proprio Spirito (o anima). Un profondo articolo di Daniela Abravenel.




Pubblico qui di seguito un interessantissimo articolo della filosofa Daniela Abravenel pubblicato sul blog Moked.it e che qui si può leggere nella sua interezza



L’ansia esistenziale descritta ovunque nella Bibbia ma soprattutto nei Salmi di David ha un ruolo centrale nella psicologia di Carl Jung, il quale descrive (con sorprendente profondità e cognizione dei testi sacri ebraici) la depressione e i vari sintomi associati al fenomeno generale di “soul loss” (perdita del proprio spirito) come una fase importantissima del processo di guarigione.
Ed è a Jung e alla psicologia del profondo che farò riferimento per ridare attualità alle parole di Geremia, di Maimonide e dei maestri della Tradizione Orale che oggi forse dichiarerebbero guerra a una medicina che consciamente o inconsciamente finisce per estinguere l’aspirazione alla completezza del Sé superiore nella sua lotta per la guarigione della psiche e del corpo.

Jung afferma che l’uomo occidentale si ammala perché investe nevroticamente la sua libido all’esterno (sulla ricchezza, il successo, le vacanze, le macchine, il “look” ecc.) a detrimento del Sé

Oggi la maggioranza della gente non sa più intrattenere un rapporto con la propria anima, né con Dio (meno che nei brevi spazi di qualche preghiera al tempio o in chiesa). Di conseguenza lo spirito (la Forza che anima il corpo) vive in stato di esilio (proprio come la Shehinah, ovvero la divina presenza incarnata nel mondo fisico): il nostro mondo diventa vuoto, spento, così come diminuisce anche la vitalità del nostro corpo.

Il verso di David “La mia anima è assetata di Te, Dio della Vita” (Zama nafshì le El Hai) secondo Jung, descrive proprio questa dinamica di soul-loss nella quale la persona ha perso contatto con l’animada cui proviene la vera gioia di vivere. 

Noi tutti possiamo vivere in uno stato di soul-loss, quando abbiamo reso una parte della nostra vita (una relazione, una meta professionale o sociale da raggiungere, ecc.) l’unico recipiente della nostra libido: non ci si entusiasma più di fronte a un tramonto, ad un’opera d’arte o a un brano di musica, a un evento emozionante…

La nostra anima è intrappolata in ciò che il grande psicologo chiama soul-loss, a volte addirittura soul-possession. La teoria cabalistica delle clipot (ovvero i ‘gusci’ dell’impurità che avvolgono l’anima e la separano dalla Luce) si riferisce al medesimo fenomeno. Peraltro Jung ammise di essere stato profondamente ispirato, nella creazione della sua psicologia, dalla Kabbalah. In un’intervista realizzata nel giorno del suo ottantesimo compleanno affermò: “Il Rabbi Beer di Mesiritz anticipò, nel diciottesimo secolo, l’intera mia psicologia”!


21/05/17

La poesia della Domenica - "In un parco straniero" di Rainer Maria Rilke.








Due sentieri. A nulla ti conducono.
Pure, l'uno t'induce a volte, sopra
pensiero a proseguire. Come se ti smarrissi;
ma d'improvviso giunto alla rotonda,
rimasto solo innanzi a quella lapide
leggi ancora una volta: Baronessa
Brite Sophie - e con il dito torni
a tastare la data ormai disfatta.
Perché questa scoperta non ti stanca ?

Perché come la prima volta indugi
con tanta attesa in questo posto d'olmi,
umido e buio e senza orme di passi ?

Quale contrasto ti eccita a cercare
chi sa cosa tra le assolate aiuole,
come se fosse il nome di un rosaio ?

Perché spesso ti fermi ? Che cosa ode il tuo orecchio ?
E perché infine, come perso, guardi
bagliori di farfalle intorno all'alto Phlox ?


Rainer Maria Rilke, da Nuove Poesie, traduzione di Giacomo Cacciapaglia, Einaudi, Torino, 1992.

19/05/17

Straordinaria scoperta a Roma durante i restauri: l'Arco di Giano è in realtà un Arco eretto per Costantino.




Sono bastate tre lettere, Cos, venute fuori dal marmo annerito per confermare cio' che gli archeologi sospettavano da tempo. E quello che per secoli e' stato l'Arco di Giano in un colpo solo ha ritrovato la bellezza della sua facciata sul Tevere ed e' tornato a essere, come nel IV d.C., l'arco onorario dedicato all'imperatore Costantino dai suoi figli

Inizia cosi' la prima tappa del restauro di uno dei gioielli superstiti del Foro Boario, quell'area affacciata sul fiume ai piedi del Palatino, che per secoli fu cuore di commerci in arrivo da tutto il Mediterraneo

E che ora ritrova parte della sua bellezza grazie al World Monuments Fund che con AmericanExpress ha donato 215 mila dollari (dopo essere gia' intervenuti al Foro Boario per i templi di Ercole Olivario e di Portuno), in aggiunta ai 100 mila euro gia' stanziati dalla Soprintendenza speciale archeologia, belle arti e paesaggio di Roma.

La strada per un restauro completo del monumento e' ancora tutta da scrivere (i lavori sulla prima facciata termineranno a luglio), ma per ora, raccontano Maria Grazia Filetici e Mirella Serlorenzi, direttore del restauro e direttore scientifico, "si e' potuto studiare lo stato di tutto l'arco sia dal punto di vista conservativo che strutturale, mappando tutte le 16 facciate"

Unico arco onorario a pianta quadrata, un tempo ricco di 48 statue incastonate nelle nicchie, divenuto nel Medioevo fortezza per i Frangipane (come il Colosseo) e parzialmente interrato fino al 1827, e' durante i lavori che il colosso ha mostrato quella scritta, Cos, incisa in un blocco della scala per l'attico. 

"E' il primo mito da sfatare - dice la Serlorenzi - Non era un arco per Giano. Venne chiamato cosi' da antiquari del Rinascimento" per via dei suoi quattro ingressi che ricordano la specularita' delle due facce del Dio. 

"Dai cataloghi regionali del IV secolo - dice - sapevamo che nell'area c'era un Arcus Divi Constantini. Quel marchio di cava oggi ci indica che era proprio questo". 

I problemi da risolvere sono molti, dallo scorrimento delle acque dall'attico ("costruito come una strada, con i sanpietrini") agli agenti atmosferici su cui si sta intervenendo con ultimissimi ritrovati biocompatibili o il furto nei secoli dei collegamenti in metallo tra i blocchi

Ma intanto si festeggia con una notte di Luce al Foro Boario (25 maggio) e con l'apertura eccezionale al pubblico per un Watch Day (26), tra laboratori, salite sui ponteggi e concerto. 

A seguire, una settimana di visite gratuite su prenotazione e una nuova guida Electa (www.coopculture.it). La speranza del Soprintendente Francesco Prosperetti e' ora di restituire l'Arco ai cittadini togliendo le cancellate che lo chiudono dall'attentato a S. Giorgio al Velabro del '93. "Spero - dice - riprenda al piu' presto il dialogo con il Comune per un piano presentato gia' ai tempi del Commissario Tronca", con un'apertura diurna presidiata. 

17/05/17

La colossale Porta Maggiore, oggi sommersa dal traffico e la Tomba del Panettiere (sepolcro del fornaio Eurisace) .


la Tomba del Panettiere a Porta Maggiore nel 1895 (foto Roma Sparita)



La maestosa Porta Maggiore, oggi purtroppo davvero costretta in un gorgo di vie di scorrimento, piazze semaforiche, binari della linea tramviaria mostra però ancora i resti del suo antico splendore che le meritò nei secoli, da parte degli stessi cittadini l’appellativo Maggiore, proprio per le sue dimensioni: fu eretta dall’imperatore Claudio nel 52 d.C. – divenendo in seguito inglobata nel recinto delle Mura Aureliane - per sostenere i condotti dell’Acqua Claudia e dell’Aniene (Anio Novus)che passavano e passano nel suo attico, scavalcando le vie Prenestina e Labicana, che scorrevano al di sotto

E’ formata da due fornici (realizzata interamente in travertino), di dimensioni gigantesche - sei metri di larghezza per quattordici di altezza - uno ciascuno per le due vie che sormontava, dentro edicole con semicolonne corinzie e con timpani e da un arco nell’edicola centrale. 

Nell’attico, tripartito da cornici vi sono l’iscrizione di Claudio riguardante la costruzione della porta e quelle che ricordano i successivi restauri che furono operati da Vespasiano nel ’71 prima e da Tito nell’81 poi. 

Tre secoli più tardi, poi, nel 402 fu oggetto di fortificazione da parte dell’Imperatore Onorio che affidò i lavori al prefetto di Roma, Flavio Macrobio Lonigiano, risulta da un’altra iscrizione posta sulla estrema sinistra della Porta, sul Piazzale Labicano


All’esterno della porta, tra i due fornici che danno sul Piazzale Labicano, è posto il curioso e singolare sepolcro di Eurisace, chiamato Panarium, appellativo dovuto alla sua bizzarra forma (quella di un forno) che si riferiva al mestiere di colui per il quale fu costruito nel 30 a.C., un fornaio in grande, Marco Virgilio Eurisace (probabilmente un liberto che si era arricchito), che riforniva lo Stato con i suoi pani prodotti ogni giorno

Tra le varie curiosità di questo sepolcro, rinvenuto durante i lavori di scavi e di abbattimento delle due torri cilindriche che erano state costruite sotto Onorio, del 1838, c’è anche il fatto che al suo interno furono ritrovate anche le ceneri della moglie di Eurisace, Atistia, contenute in una meravigliosa urna artistica a forma di madia di pane, conservata oggi al Museo delle Terme

Anche Porta Maggiore poi, come successe ad altre porte delle Mura Aureliane, fu murata in diverse epoche, in particolare per difendere Roma dall’assedio dei Goti comandati dal Re Vitige tra il 537 e il 538. 

Dopo varie traversie, nel corso dei secoli, nell’Ottocento, sotto Papa Gregorio XVI si procedette ad un nuovo restauro dell’insigne monumento, cercando di appianarne uno dei difetti fondamentali strutturali: la porta infatti, nell’epoca del rifacimento sotto Onorio, era rimasta pericolosamente asimmetrica, probabilmente a causa del dislivello stradale esistente tra le due vie, Prenestina e Labicana e di conseguenza dei due fornici che le sovrastavano. 

Ma è soltanto nel Novecento che finalmente, durante i lavori urbanistici di sistemazione del piazzale Labicano, la porta fu restituita alle sue forme originarie, con il recupero dei tratti delle due antiche strade romane, con le lastre di basalto e perfino le impronte lasciate dai carri romani, come è possibile vedere lungo i tratti emersi della Via Appia.