08/03/18

Le vite incredibilmente intrecciate di Nelly Sachs e Paul Celan.


Ci sono vite che sono misteriosamente intrecciate, come quella di Nelly Sachs, nata a Berlino nel 1891, sopravvissuta alla Shoah e  quella di Paul Celan, anche lui ebreo, e uno dei massimi poeti del Novecento. 

Nelly (Leony) Sachs era riuscita a scampare ai nazisti grazie ad una lettera scritta quando aveva poco più di 15 anni a Selma Lagerlhof, grande scrittrice svedese prima donna insignita del Premio Nobel per letteratura nel 1909.  

Dopo la morte del padre di Nelly, fu proprio Selma ad aiutare Nelly e la madre, ormai cadute in miseria e con lo spettro incombente della deportazione. Selma Lagerlhof morì nel 1940, poco prima che le due donne arrivassero in Svezia, salve.  

Le condizioni di vita di Nelly a Stoccolma furono inizialmente molto precarie ma, anche lavorando come lavapiatti, le permisero di entrare nel circolo culturale svedese, come traduttrice in tedesco della grade poesia svedese. 

La fuga, promossa dalla Lagerlhof, consentì a Nelly di salvarsi, insieme alla madre, dal campo di concentramento, dove finì l'intero resto della loro famiglia. 

La sindrome del sopravvissuto colpì Nelly nei suoi decenni in Svezia, dopo la fine della guerra, esattamente come accadde a Paul Celan - il quale, di origini rumene, visse direttamente le deportazioni che condussero gli ebrei di tutta Europa all'Olocausto, riuscendo a sfuggire, pur spedito  in diversi campi di lavoro in Romania; al contrario dei genitori catturati dai nazisti e fucilati nel campo di concentramento di Michajlovka, in Ucraina.  

Per Nelly, come per Celan, la poesia divenne il luogo in cui sublimare una parabola di dolore infinito, con l'interrogazione incessante sul senso del destino tragico umano. 

Era forse inevitabile che i due prima o poi si incrociassero. 

Nel 1954 la Sachs infatti inizia una lunga corrispondenza epistolare con Celan. 

Lettere bellissime e accorate che testimoniano di un comune sentire e di una stessa profonda sensibilità, oltre che di una immensa stima reciproca. 

In una di queste lettere Celan scrive alla Sachs: Penso a te, Nelly, sempre, pensiamo sempre a te e ciò che vive grazie a te! Ricordi ancora quando abbiamo parlato di Dio per la seconda volta, a casa nostra, del tuo Dio, il Dio che ti attende, ricordi che c'era il riflesso dorato sulla tua parete ? Sei tu, è la tua vicinanza, che permette di vedere il riflesso, c'è bisogno dite, anche in nome di coloro ai quali tu sei e ti pensi tanto vicino, c'è bisogno della tua presenza qui e tra gli uomini, c'è bisogno di te ancora e a lungo, c'è chi cerca il tuo sguardo; mandalo, quello sguardo, mandalo ancora all'aperto, consegnagli le tue parole vere, le tue parole liberatrici, affidati a lui, affida a noi, tuoi compagni di vita, della tua vita, questo sguardo, fai in modo che noi, già liberi, diventiamo i più liberi in assoluto, facci stare ritti, con te, nella luce! 

Qualche anno dopo, nel 1966, Nelly Sachs veniva insignita del Premio Nobel per la Letteratura. 

Al termine di anni molto duri, con grandi sofferenze psichiatriche e crolli fisici e psichici, Nelly mori il 12 maggio 1970, lo stesso giorno esatto in cui a Parigi si stava celebrando il funerale di Paul Celan, suicidatosi pochi giorni prima, gettandosi nelle acque della Senna.


Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata

notizie tratte da: Elena Buia Rutt, La scrittura come unico appiglio, in Donne Chiesa Mondo, numero 66, marzo 2018, pag. 36 e seguenti. 

+++ Identificati i resti della Leggendaria Pilota Amelia Earhart nel Pacifico.



I resti trovati nel 1940 su una remota isola dell'Oceano Pacifico appartengono ad Amelia Earhart, la leggendaria pilota americana scomparsa nel 1937mentre volava sopra il Pacifico. 

Lo ha stabilito una nuova analisi pubblicata sulla rivista Forensic Anthropology e condotta da Richard Jantz, del Centro di Antropologia Forense all'Universita' del Tennessee, che ha riesaminato le misurazioni fatte nel 1940: all'epoca i resti erano stati attribuiti ad un uomo. 

06/03/18

Il Mistero dei Buchi nel Colosseo.




Tra le molte leggende che hanno accompagnato la vita del Colosseo - se ancora oggi procura una così grande impressione ai turisti che vengono a vederlo, figurarsi cosa dovesse sembrare questo monumento in epoca medievale, già diversi secoli dopo il crollo dell'Impero Romano - alcune, assai curiose, hanno riguardato i famosi buchi, quelle fessure che costellano tutta la superficie visibile dell'Anfiteatro, nella sua parte più antica. 

Tra queste una delle più curiose e persistenti fu quella secondo cui i buchi erano stati fatti dai lanzichenecchi che li riempirono di polvere da sparo con l'idea di far saltare in aria il monumento. 

La stessa leggenda riferiva che il tentativo fosse andato a monte, ribadendo e rinforzando l'alone di immortalità che da sempre avvolgeva il Colosseo.  

Molto più prosaicamente, in tempi più recenti, si è giunti alla conclusione che queste fessure altro non sono che le tracce lasciate dalle cosiddette grappe, che i romani usavano - nel loro genio architettonico - per rinforzare le strutture del travertino, e collegare i diversi blocchi. 

Questo ferro - una quantità imponente che secondo alcuni raggiungeva il peso complessivo di 300 tonnellate - fu gradualmente asportato durante il Medioevo, rendendo certamente il monumento più fragile. Anche se, proprio in virtù della grandezza degli antichi costruttori, il Colosseo è riuscito a rimanere sempre in piedi, nonostante questo. 

Questi buchi, comunque, si sono poi dilatati con il tempo, e certamente anticamente non erano visibili, perché tutta la superficie del gigantesco monumento era rivestita da enormi lastre di travertino, anche queste spogliate senza ritegno nel corso dei secoli e usate per edificare dimore di nobili e principi romani. 

Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata



05/03/18

A Roma, al Vittoriano, la prima mostra di Liu Bolin, l'artista che "scompare dentro le cose".


Si immerge nelle cose e scompare, cambia colore e si mimetizza come un camaleonte, entra a far parte dell'ambiente circostante usando il corpo come strumento di conoscenza: arriva a Roma "the invisible man" Liu Bolin, protagonista della prima grande antologica in Italia allestita al Complesso del Vittoriano dal 2 marzo al 1 luglio. 

A cura di Raffaele Gavarro, la mostra presenta al pubblico l'intera storia dell'artista cinese, celebre per la sua capacita' di restare immobile come una statua e mimetizzarsi in ciò che ha intorno grazie a un accuratissimo body painting. 

Il percorso di snoda lungo 72 opere che documentano la nascita e lo sviluppo di quel linguaggio personalissimo, frutto di un mix di pittura e fotografia ma anche di performance e installazioni, che rende Bolin del tutto originale. 

Ormai acclamato in tutto il mondo, l'artista ha iniziato la rivoluzione del 'camouflage' nel 2005: in quell'anno infatti il governo cinese decise di abbattere il quartiere Suojia Village di Pechino, dove Bolin, cosi' come tanti altri artisti, aveva il suo studio

Come atto di ribellione, Bolin si mimetizzo' tra le macerie del suo studio e si fece fotografare, iniziando una protesta silenziosa attraverso la sua presenza corporea

E proprio da quell'immagine e' iniziata una carriera, ormai lunga 13 anni, dal successo sorprendente, che la mostra romana racconta attraverso 7 sezioni tematiche

Il visitatore vedra' Bolin 'nascondersi' nella sua Cina, da Piazza Tienanmen alla Grande Muraglia, e poi riconoscera' il nostro Paese, dove l'artista ha vissuto l'esperienza di un vero e proprio Grand Tour italiano, misurandosi con le bellezze del nostro patrimonio artistico, dal Colosseo alla Reggia di Caserta (questi scatti sono stati realizzati appositamente per la mostra), dal Canal Grande di Venezia alla Scala di Milano fino all'Arena di Verona

Non mancano incursioni nella moda dei grandi stilisti, come Valentino e Missoni o Moncler, per il quale Bolin e' protagonista di una nota campagna pubblicitaria, o nel mito della Ferrari. 

La sua ricerca artistica e' pero' molto di piu' che un semplice nascondersi nell'ambiente. 

Lo dimostrano gli scatti che lo ritraggono in una centrale di smaltimento di rifiuti a Bangalore, o quelli dedicati ai flussi migratori, con la sua immedesimazione nei corpi che viaggiano tra mari e confini alla ricerca di un futuro. "Io mi sono formato come scultore, ma nel 2005 quando il governo ha distrutto il mio studio ho capito che con la scultura non avrei potuto esprimere il senso di ribellione che provavo. Mi era rimasto solo il corpo, non avevo altri strumenti", ha detto oggi Bolin alla presentazione della mostra, "in 13 anni ho cercato di comprendere l'interazione tra l'uomo e la realta', provando a dare voce alla spiritualita'"

Il lavoro dell'artista, come ha affermato il curatore Gavarro, "e' senza dubbio politico, perche' e' connesso a un'idea di conoscenza, e' un farsi parte delle cose", un tentativo di interpretare silenziosamente la complessita' del mondo contemporaneo. 

04/03/18

Poesia della Domenica: "Credevo" di Rabindranath Tagore.

Rabindranath Tagore con Albert Einstein, 1931

Credevo

Credevo che il mio viaggio
fosse giunto alla fine
mancandomi oramai le forze.
Credevo che la strada
davanti a me
fosse chiusa
e le provviste esaurite.
Credevo che fosse giunto
il tempo
di trovare riposo
in una oscurità pregna
di silenzio.
Scopro invece
che i tuoi progetti
per me non sono finiti
e quando le parole ormai
vecchie
muoiono sulle mie labbra
nuove melodie nascono dal
cuore;
e dove ho perduto le tracce
dei vecchi sentieri
un nuovo paese mi si apre
con tutte le sue meraviglie.

03/03/18

Dieci foto, le Dieci Grandi Anime di cui si parla in "Cercare Dio" di Fabrizio Falconi.

Ecco dieci ritratti delle dieci Grandi Anime di cui si parla in Cercare Dio, di Fabrizio Falconi, appena uscito da Castelvecchi Editore, in tutte le librerie. 

Etty Hillesum (1914-1943)

Jiddu Krishnamurti (1895-1986)

Ingmar Bergman (1918-2007)

Frère Roger Schutz (1915-2005)

Dag Hammarskjöld (1905 – 1961)

Antonia Pozzi (1912-1938)

Andrej Tarkovskij (1932-1986)


Raimon Panikkar (1918-2010)


Clive Staples Lewis (1898 – 1963)


Pavel Florenskij (1882-1937)


02/03/18

Libro del Giorno: "Atlante Occidentale" di Daniele Del Giudice, un grande romanzo da recuperare.




Ho riletto questo libro trent'anni dopo la prima volta. 

Daniele Del Giudice, romano, classe 1949, una vita vissuta tra Roma e Venezia aveva esordito un paio d'anni prima con Lo stadio di Wimbledon, sotto l'ala protettiva di Italo Calvino che l'aveva scoperto chiedendosi se quel primo romanzo "costituisse un nuovo approccio al racconto, secondo un nuovo sistema di coordinate". 

La conferma arrivò con Atlante Occidentale, pubblicato nel 1985 che rappresentò una sorta di folgorazione per una giovane generazione di lettori, me compreso. 

Ero perciò curioso di verificare quale sarebbe stata la mia impressione dopo un così consistente numero di anni. 

Nel frattempo la carriera di Del Giudice, dopo altri  3 romanzi pubblicati - Nel museo di Reims (1988) Orizzonte mobile (2009) e In questa luce (2013) - si è incagliata in dolorose vicende personali con una malattia molto seria che ha compromesso in modo rilevante la sua produzione di scrittore. 

Atlante Occidentale, però, rimane un unicum nella produzione letteraria italiana degli ultimi decenni, qualcosa di completamente diverso rispetto alla medietà delle storie, delle ambientazioni e soprattutto dello stile abituale, soprattutto degli esordienti o post esordienti. 

Del Giudice, dunque, nel pieno degli anni '80 dell'effimero italiano, dell'Italia da Bere, dell'edonismo e dei paninari, sfornò un'opera che obbediva sorprendentemente ai canoni delle Lezioni di Calvino: leggerezza (il romanzo si apre addirittura con una lunga scena di volo, durante la quale due aereoleggeri rischiano di scontrarsi), rapidità (soltanto 152 pagine), esattezza (una cura maniacale nella ricerca delle parole) visibilità (è il vero tema del libro, tutto giocato sulla differenza, sul contrasto tra visibile e invisibile), molteplicità (l'utilizzo di uno stile assolutamente originale che utilizza la narrazione al passato e al presente in un continuo alternarsi anche dentro lo stesso capoverso), coerenza (un'opera che si conclude e offre quel che ha da dire, senza perdersi in divagazioni o sviluppi incoerenti).

Una trama apparentemente poco accattivante per il pubblico (di allora come di quello di oggi) e altamente sofisticata: un fisico italiano - Pietro Brahe - impegnato a tempo pieno (notte e giorno) nei complessissimi lavori dell'acceleratore nucleare del CERN di Ginevra e un grande scrittore alla soglia del massimo riconoscimento - Ira Epstein - che ha deciso di non scrivere più ed è interessato alla realizzazione di un Atlante della Luce, l'atlante di una geografia diversa, dove si vede a grandezza naturale ed è legata non solo ai luoghi, ma alle persone.

Incrociatisi per caso sul campo di volo, Brahe e Epstein diventano conoscenti e poi amici sullo sfondo della asettica Svizzera di bianche villette e giardini e cielo bianco e azzurro estivo, e villaggi tranquilli e silenziosi, e lungolaghi eleganti e auto di lusso.

Il dialogo è soprattutto filosofico. Brahe è concentrato a trovare le cose che non si vedono: a trovare le tracce di sfuggentissime particelle subatomiche nel grande anello dell'acceleratore; Epstein è invece interessato a capire come si formano le cose che lui vede nella sua mente e che sono già vere, prima di divenire parole.  

Lunghe dispute avvengono dunque su questo sfondo argomentativo, mentre si affiancano altri personaggi: l'assistente di Epstein, Gilda; il collega e sodale di Pietro, il tedesco Rudiger, il capoprogetto Mark.

E' un romanzo fatto di attesa e di tempi sospesi, dove nulla di reale sembra succedere veramente. Dove, come si rivela nelle ultime pagine, ciò che conta è l'esistenza di un sentimento che dà forma alle parole e che allo stesso tempo prende forma dalle parole stesse.

Il virtuosismo di Del Giudice, mai fine a se stesso, è tale, che nell'epilogo del libro, si può mettere in bocca ad Epstein una descrizione di fuochi d'artificio (a cui assistono i due protagonisti) lunga 7 pagine. 

Dopo molti anni, il romanzo di Del Giudice conferma la sua grande novità, mantenendo intatto il suo fascino enigmatico (in fondo anche profetico viste le incredibili sorprese che l'acceleratore Large Hadron Collider ha portato negli ultimi tempi con la scoperta del Bosone di Higgs) e accresce il rammarico che l'opera di questo autore non abbia potuto dispiegarsi completamente.

Un romanzo sui generis, in controtendenza rispetto al gusto comune e non facile, ma strettamente rigoroso, in termini, lingua e contenuti.

Che segna la distanza temporale dall'oggi se non altro per la constatazione che un romanzo come questo, nella Italia di oggi,  non troverebbe mai un editore disposto a pubblicarlo. 

Daniele Del Giudice 
Atlante occidentale 
1985-2009 
Einaudi Scrittori 
pp. 178 € 11,00 

Fabrizio Falconi
- riproduzione riservata 2018.

Straordinario ritrovamento a Roma durante gli scavi per la Metro C: ritorna alla luce la "Casa del Comandante" !




Roma non finisce mai di stupire. La notizia clamorosa è che gli scavi per la Metro C di Roma hanno portato alla luce 'la Casa del Comandante':  una domus collegata ai dormitoria della caserma di impianto traianeo e poimodificata da Adriano, dormitoria scoperti nel 2016. 

"È una scoperta eccezionale perché a Roma non e' mai stata individuata ne' scavata archeologicamente una caserma e mai trovata una domus collegata alla caserma stessa", ha spiegato Rossella Rea responsabile dello scavo

La scoperta e' stata effettuata durante i lavori alla stazione della Metro C Amba Aradam

La "Domus del Comandante" e' stata ritrovata a 12 metri sotto il livello della strada.  


Ora verrà smontata, livello per livello, e delocalizzata, cioe' spostata in container riscaldati per continuare gli scavi della metro C

"Ho gia' parlato con Cantone che mi ha assicurato che il luogo verrà reso fruibile al pubblico e tutto il ritrovamento rimesso al suo posto; come questo avverra', compatibilmente con la metro C, si vedra'. Mi sono gia' assicurato progetto e finanziamenti", ha detto Francesco Prosperetti, soprintendente ai Beni Archeologici di Roma che ha interpellato il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, in quanto l'Autorita' nazionale anticorruzione sovrintende a tutte le opere pubbliche

28/02/18

"Tutto ciò che ho visto, tutto ciò che ho capito", una bellissima intervista a Liv Ullmann che quest'anno compie 80 anni.


Pubblico questa bellissima intervista realizzata da Giorgio Vasta e uscita sul Venerdì di Repubblica del 6 Febbraio scorso, che ringraziamo. 
Una scogliera filmata in bianco e nero, le rocce piatte e scabre, sullo sfondo un frammento di mare grigio. Dal limite basso dell’inquadratura compare una donna, indossa un lupetto e una giacca impermeabile: ci guarda, solleva una macchina fotografica, fissa nell’oculare del mirino, scatta, impercettibilmente ci sorride, si volta e si allontana verso la costa caliginosa.
È una scena brevissima di Persona, il film con cui nel 1966 Ingmar Bergman ridefinisce la grammatica della narrazione per immagini, eppure, forse proprio per questa sua fugacità, quel lampo di fotogrammi è uno dei modi in cui il volto di Liv Ullmann – il suo sguardo perentorio e disarmato – si è fatto cinematograficamente indimenticabile.
Quando l’attrice norvegese gira Persona ha ventotto anni – nata a Tokyo nel ’38 trascorre l’infanzia in Canada e poi negli Stati Uniti, dopo la fine della Seconda guerra torna in Norvegia, a Trondheim – e, sebbene prima di allora abbia già recitato in altri film, il ruolo di Elisabet Vogler – l’attrice teatrale che all’improvviso smette di parlare trasformando il silenzio in una strategia di disvelamento – è il suo vero e proprio esordio. Una nuova origine, un ennesimo inizio. Qualcosa che non se ne sta immobile alle nostre spalle bensì davanti a noi, una sostanza di cui sentiamo la mancanza e che per una vita intera continuiamo a cercare. Nel suo capolavoro del 1957, Bergman chiamava questa origine là da venire «il posto delle fragole»; per Ullmann è qualcosa di immateriale.
Rispondendo alle nostre domande da Key Largo, in Florida, dove trascorre l’inverno – la voce fluida e sottile, a tratti esitante – Liv Ullmann racconta: «La mia origine è mio padre, che è morto quando avevo sei anni e che sento sempre intorno a me, ed è mia madre, scomparsa dieci anni fa, alla quale ho domandato scusa per tutto ciò che non ho saputo capire. Ma la mia origine è soprattutto mia nonna, l’odore del suo collo quando da piccola mi prendeva sulle ginocchia per raccontarmi le storie della sua infanzia. Per tutta la vita ho cercato qualcuno che avesse quello stesso odore senza trovarlo né in mia madre né nell’uomo che amo né negli uomini di cui sono stata innamorata».
Il senso del dovere e il senso di colpa sono stati un altro modo in cui l’origine si è manifestata. «In tutti i miei film ho avuto la possibilità di elaborare il mio senso del dovere e di vederlo rappresentato nei ruoli che ho interpretato. Il senso di colpa è stato invece parte integrante della mia educazione, un condizionamento determinato anche dall’essere una donna in un mondo di uomini».
Colpa e dovere sono la corazza che Nora, la protagonista di Casa di bambola di Ibsen – per Ullmann una stella polare, un ruolo così lungamente frequentato da diventare la cartina di tornasole delle sue più personali metamorfosi –, riesce infine a spezzare. «Nel tempo il mio desiderio di liberarmi da questa armatura ha combattuto contro la mia educazione, ma in realtà non sono mai riuscita a svincolarmi del tutto. Ancora adesso, ogni mattina appena mi sveglio mi dico: Oggi sarò Liv, sarò una persona perbene ma non farò quanto gli altri si aspettano da me, solo quello che io penso sia ok. Come Nora, anch’io attendo ogni giorno di percepirmi come meraviglia».
In Cambiare, l’autobiografia pubblicata nel ’77 (seguita nell’85 da un secondo libro di memorie, Scelte), Ullmann racconta che negli anni di più intensa attività – durante i quali viaggia da un continente all’altro (spesso insieme a Linn, la figlia nata nel ’66 dalla relazione con Bergman) lavorando anche con Jan Troell, Terence Young, Richard Attenborough, e in Italia con Monicelli e Bolognini – poteva trovarsi, rientrata a casa, a osservare Tasse, la sua gatta, per rubarleun’espressione da usare in scena. Tutto ciò che esisteva era un patrimonio al quale attingere. «Il mondo è stato il mio partner. Nel mio modo di essere attrice c’è la consapevolezza di possedere qualsiasi sentimento, tutto ciò che ho visto e tutto ciò che ho capito. Quel che ho fatto è stato andare dentro di me, trovare questi sentimenti e tradurli all’esterno: in ogni gesto, anche solo in un’andatura».


Senz’altro in quelle espressioni che i close-up di Bergman hanno saputo osservare come nessun altro, da quella di Jenny in L’immagine allo specchio a quella di Anna Fromm in Passione, da quella di Alma in L’ora del lupo a quella di Eva in Sinfonia d’autunno, passando per il volto di Marianne in quel trattato di anatomofisiologia di una coppia che è Scene da un matrimonio – lo sguardo che slitta dalla felicità all’indifferenza fino a una disperazione del legame da cui affiora un ultimo barlume di solidarietà. «Amo il primo piano perché in quel momento il nostro sguardo arriva vicinissimo all’animo umano. È qualcosa che in teatro non può avvenire ma nel cinema sì, e quando avviene è fantastico: in quel momento la recitazione scompare: l’unica cosa che si deve vedere è la realtà di un volto al di là della realtà».
Passando in rassegna quei ritratti-indagine ci rendiamo conto che per il regista svedese il volto della donna con cui condivise una decina di film e cinque anni di vita(in gran parte trascorsi nella tana-rifugio dell’isola di Fårö, situata tra Russia e Svezia: «un relitto dell’età della pietra», nella percezione di Ullmann) è stato un luogo inesauribile da cui non riusciva a distogliere lo sguardo, come non ci riusciamo noi, oggi, constatando la potenza di quell’ovale così saldamente morbido, ortogonale e poroso, altero e delicato, fatto di granito e di cotone: un volto esemplare, essenziale e complesso, all’apparenza imperturbato ma in realtà – in quella particolare realtà che è il cinema – timido, inquieto, profondamente vulnerabile (un volto, quello di Liv – e quindi di Elisabet Jenny Anna Alma Eva Marianne – che nei prossimi mesi verrà visto innumerevoli volte: alla fine del 2018 Ullmann compirà ottant’anni e nello stesso anno in tutto il mondo si celebra il centesimo anniversario della nascita del regista del Settimo sigillo).
«Tutte le immagini scompariranno» ha scritto Annie Ernaux in Gli anni. Tutte le immagini. Tutto ciò che abbiamo pensato, tutto ciò che abbiamo ricordato. Tutte le percezioni. Prima di allora abbiamo però ancora modo di recuperare qualcosa. E dunque, quando la nostra conversazione sta per concludersi, c’è ancora il tempo per contraddire una certezza. «Trent’anni fa ero sull’isola di Macao. Davanti a me un recinto con un cartello che vietava l’ingresso, oltre il recinto decine di persone con la lebbra. Non intendevo entrare ma un prete cattolico mi si era avvicinato e mi aveva condotto all’interno. Addossata al recinto giaceva una donna molto vecchia: il volto deturpato, i moncherini, un pianto da neonata. Quando mi sono chinata e l’ho abbracciata ho sentito che il suo collo aveva lo stesso odore di quello di mia nonna».
Ciò che sparisce – chi sparisce – diventa di colpo reale: diventa l’origine davanti a noi, il nostro posto delle fragole. Un fantasma che prende la forma di un odore o si concentra in un balenare di fotogrammi: la scogliera, la donna, lo scatto della foto: Liv Ullmann che per un istante – dunque, in quella forma di memoria che è il cinema, per sempre – ci guarda, ci sorride, diventa indimenticabile.
Giorgio Vasta per il Venerdì di Repubblica

27/02/18

La Fontana del Babuino - Uno dei "must" di Roma.



E' stata per diversi secoli una delle sei statue parlanti di Roma e per molto tempo le "babuinate" hanno fatto concorrenza alle "pasquinate" nella tradizione della vita cittadina. 

La celebre fontana romana risale al 1576, quando Papa Gregorio XIII la fece erigere davanti palazzo Cerasi (al civico 51 di Via del Babuino), come semplice mostra dell'Acqua Vergine, collocandovi come ornamento un antico reperto romano, di origine ignota, che subito la vox populi romana ribattezzò - per la sua bruttezza e per la posa semisdraiata - "Babuino".

Il soprannome ebbe così fortuna che addirittura valse il nuovo nome alla Via dove era stata posta, uno dei tre assi che partivano dalla Piazza del Popolo e dalla Porta Flaminia, esistente già in età romana, e che era stata chiamata prima Via Clementina (in onore di papa Clemente VII che l'aveva fatta sterrare e riordinare per l'anno giubilare del 1525) e poi Via Paolina Trifaria (in onore del Papa Paolo III) che dopo il Sacco di Roma, l'aveva fatta restaurare. 

Indagini sulla statua hanno permesso di stabilire che si tratta di due pezzi distinti: il corpo, in tufo, di provenienza ignota, e la testa di sileno, che è invece in travertino. I due pezzi insieme rappresentano forse l'immagine di un Ercole sdraiato a banchetto, anche se per molto tempo fu creduta una riproduzione di San Gerolamo, sofferente per la vecchiaia. 

La collocazione attuale, accanto alla chiesa di Sant'Atanasio dei Greci, è piuttosto recente: risale infatti al 1957, quando fu trasportata dal cortile di Palazzo Boncompagni dove era finita nel 1877 durante i lavori di risistemazione dei marciapiedi e della sede stradale della Via del Babuino. In quella occasione statua e vasca della fontana erano state separate: la vasca era infatti finita ad adornare la facciata del Palazzo Borromeo sulla Via Flaminia. 

Da più di cinquant'anni però, la fontana ha ritrovato il suo aspetto originario. Suscitando la curiosità dei turisti anche per la colorazione bizzarra che spesso assume il corpo del Babuino a causa della formazione di piccole alghe in alcuni periodi sul tufo con cui è modellato. 

Fabrizio Falconi
riproduzione riservata - 2018.


L'universo si espande molto più velocemente del previsto. "Vediamo segnali arrivarci da qualche mondo nuovo, ma non sappiamo né come è fatto, né dove si trova".


L'universo si espande molto piu' velocemente del previsto: la sua velocita' e' del 10% superiore a quella misurata finora.

Lo indica la misura piu' precisa mai ottenuta, pubblicata sull'Astrophysical Journal.

A 100 anni dai primi calcoli della velocita' di espansione dell'universo, il risultato apre la finestra su un lato misterioso del cosmo, perche' fornisce i primi indizi di una nuova fisica.

Si deve a uno dei papa' della scoperta che l'espansione sta accelerando, il premio Nobel per la fisica Adam Riess.

Del suo gruppo, presso l'americano Space Telescope Science Institute (STScI) e Johns Hopkins University, fa parte anche l'italiano Stefano Casertano.

Possibile grazie ai dati del telescopio spaziale Hubble, dedicato all'astrofisico statunitense che ha scoperto l'espansione dell'universo, il risultato "apre le porte a un viaggio nel mistero: vediamo segnali arrivarci da qualche mondo nuovo, ma non sappiamo ne' come e' fatto, ne' dove si trova" ha detto all'ANSA il vicepresidente dell'Istituto Nazionale diFisica Nucleare (Infn), Antonio Masiero. 

26/02/18

Palazzo Mattei di Giove, una perla nel cuore del centro storico di Roma.




E' un vero e proprio gioiello nel cuore del centro storico di Roma. Vi si accede da due ingressi, in via dei Funari, al civico 31 e da via Michelangelo Caetani al civico 32.  

Il Palazzo Mattei di Giove  faceva parte della cosiddetta Isola dei Mattei, il complesso di case e palazzi incastonati tra il Ghetto e l'attuale Via delle Botteghe Oscure che ospitavano le residenze di una delle famiglie più blasonate di Roma, i Mattei, nei loro differenti rami. 

Questo palazzo - a 3 piani e attico - che oggi ospita il Centro Studi Americani, la Discoteca di Stato e la Biblioteca di storia moderna e contemporanea, era di proprietà di Asdrubale di Alessandro Mattei, duca di Giove e quindi del ramo detto dei Mattei di Giove. 

La facoltosa famiglia decise di commissionarne l'opera nientemeno che a Carlo Maderno, che lo edificò tra il 1598 e il 1611, divenendo così l'ultimo dei 5 palazzi dei Mattei in questa zona. 

E' davvero suggestivo entrarvi oggi, sembrando di penetrare all'interno di una complessa quinta teatrale, con i 2 androni ornati di antichi rilievi e 2 cortili di cui il secondo con una meravigliosa fontana e altri oggetti di scavo.

Fontana adornata da mascherone grottesco che versa l'acqua in un sarcofago strigilato con protomi leonine simmetriche, Palazzo Mattei di Giove, Roma

Gli scaloni del Palazzo sono incredibilmente suggestivi, ornati da sculture e vasi antichi e con finissimi stucchi nelle volte; nelle Logge poi busti di imperatori romani risalenti al secolo XVI secolo, mentre le sale sono affrescate dai più grandi maestri dell'epoca: Dominichino, Lanfranco, Pietro da Cortona, Albani, Pomarancio, Antonio Carracci.

Inizialmente previsto come Palazzo isolato, nel 1613 fu realizzato invece il braccio che avrebbe unito il Palazzo Mattei di Giove a quello di Alessandro Mattei, oggi Palazzo Caetani.


Il Palazzo è ancora oggi una specie di piccolo grande museo, basti pensare al Sarcofago di Marte e Rea Silvia e al Sarcofago Mattei, due tra i più belli e i meglio conservati dell'Antica Roma, che facevano parte della immensa collezione di marmi antichi dei Mattei. 

Il Palazzo rimase di proprietà dei Mattei di Giove fino all'inizio del 1800, quando la linea maschile della famiglia si estinse.  L'eredità andò alla figlia di Giuseppe Mattei, Marianna, che sposò Carlo Teodoro Antici di Recanati, fratello di Adelaide, la madre di Giacomo Leopardi, il quale soggiornò ospite in questo palazzo tra il novembre 1822 e l'aprile 1823. 

In effetti anche oggi il vetusto Palazzo mantiene un'atmosfera Leopardiana, colmo di memorie e di immagini melanconiche, in certi punti spettrali. 

E' forse anche per questo che - dopo che il Palazzo fu acquistato dallo Stato Italiano nel 1938 - esso servì anche da set ad uno dei primi e più celebri sceneggiati Mistery della Rai degli anni '60, Il segno del comando. Qui infatti vennero ambientate diverse scene: quelle della dimora di uno dei protagonisti, il Principe Anchisi.

Fabrizio Falconi
- riproduzione riservata 2018
foto di proprietà dell'autore. 


23/02/18

Mentre in Italia si parla, in Francia si riparte dalla Cultura (e dalle Biblioteche).



La cultura riparte dalle biblioteche: almeno in Francia, dove il presidente Emmanuel Macron vuole rimetterle al centro della sua politica culturale favorendo al massimo gli orari di apertura, inclusa la domenica. 

Il leader neo-quarantenne ha accompagnato la ministra della Cultura, Francoise Nyssen, in visita alla Mediateca di Mureaux, nel dipartimento delle Yvelines, non lontano da Parigi. "L'apertura delle biblioteche - ha detto - fa parte della battaglia per l'emancipazione", che e' il "filo rosso" della politica del governo

Per l'occasione, l'accademico Eric Orsenna ha preparato un rapporto ad hoc che ha consegnato al presidente. Designato 'ambasciatore della lettura', il celebre scrittore ha realizzato un 'tour de France' di tre mesi per studiare attentamente l'attuale funzionamento di biblioteche e sale di lettura ed annotare i punti da migliorare. 

"Facciamo un sogno. C'era una volta un paese di lettori (...) in cui ognuno disponeva di un luogo, non lontano da casa, dove potesse recarsi per scoprire e scoprirsi, imparare, immaginare, scambiare, viaggiare. Questo Paese e' il nostro, e' la Francia. Farlo esistere dipende da noi", si legge nella conclusione del rapporto intitolato Voyage au pays des bibliothe'ques

In campagna elettorale, Macron s'impegno' ad estendere gli orari di apertura la sera e nel fine settimana. Un modo a suo avviso di rafforzare la "cultura di prossimita'" e lottare "contro la segregazione culturale".

Ora Parigi ha aumentato di 8 milioni di euro la dotazione generale di decentralizzazione a favore delle biblioteche per i prossimi cinque anni. 

Se il progetto permette di sostenere "200 progetti di estensione di orario", recita il rapporto di Orsenna, lo sforzo finanziario resta comunque "insufficiente". 

In Francia la lettura pubblica dispone di 16.500 luoghi (7.700 biblioteche, 8.800 punti d'accesso ai libri), 38.000 agenti, 82.000 volontari, per uno spazio complessivo di 16,5 milioni di metri quadri: "L'equivalente di cento musei del Louvre", annota Le Monde

Nel 2016, il 40% dei francesi di oltre 15 anni si sono recati in biblioteca, ma solo 12% prendono in prestito dei libri. Ora l'obiettivo e' aprire "meglio e di piu'"

 Nyssen vorrebbe anche che almeno una biblioteca per provincia diventi un luogo di apprendimento del francese, in particolare per i migranti, e che almeno tre biblioteche propongano un modulo di sensibilizzazione contro le fake news. 

21/02/18

Al MAXXI di Roma dal 16 marzo una Installazione per ricordare il rapimento e la morte di Aldo Moro.



In occasione del quarantennale della strage di via Fani, il MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXIsecolo rende onore alla memoria di Aldo Moro

 E lo fa attraverso lo sguardo di un artista, Francesco Arena: la sua opera 3,24 mq, che riproduce in dimensioni reali l'angusto spazio nel quale Moro fu tenuto prigioniero per 55 giorni, sara' esposta dal 16 marzo al 9 maggio (date del rapimento e del ritrovamento del corpo) nel cuore del museo, nella galleria che ospita la collezione permanente con ingresso libero dal martedi' al venerdi'. 

Durante i 55 giorni di esposizione - lo stesso del tempo della prigionia (tanti quanti furono quelli in cui lo statista democristiano rimase prigioniero delle Brigate Rosse prima che venisse ucciso e che il suo corpo venisse fatto ritrovare nel bagagliaio di una Renault Rossa parcheggiata nella capitale in pieno centro storico) - saranno organizzati incontri con storici, studiosi, giornalisti, scrittori: per non dimenticare.



Un'iniziativa particolarmente importante oggi, con la grave notizia che e' stata imbrattata da ignoti, con svastiche, la lapide commemorativa, in Via Mario Fani.

"Avevamo gia' in programma questa celebrazione, ma oggi piu' che mai ci sembra necessaria- spiega Giovanna Melandri, presidente della Fondazione che gestisce il museo delle arti e dell'architettura del XXI secolo - Anche un'istituzione come il MAXXI deve fare la sua parte per contrastare ogni segnale di imbarbarimento del clima culturale e sociale del nostro Paese. Ci auguriamo che vengano in tanti, soprattutto giovani, ad assistere agli incontri e a vedere con i propri occhi un'opera d'arte che ci fa rivivere in modo profondamente toccante uno dei momenti piu' tragici della nostra storia recente". 

fonte askanews e ansa

20/02/18

Un luogo segreto nel cuore di Roma - L'Auditorium di Mecenate, all'Esquilino.



Quando le pale e i picconi delle maestranze savoiarde, al lavoro per la costruzione del nuovo quartiere Esquilino, perla della neo-nata capitale d'Italia, si imbatterono nella scoperta, quasi non si credette a tanta fortuna. 

Eppure anche stavolta Roma aveva meravigliato, restituendo dopo quasi duemila anni e praticamente intatto, nella struttura, un edificio costruito in età adrianea, che fu identificato come un Auditorium. 

Attraverso il nome identificato su una conduttura di piombo, del retore M. Cornelius Fronto, proprietario degli Horti Maecenatis che sorgevano anticamente proprio in questo luogo - l'attuale Largo Leopardi - fu possibile attribuire la costruzione dell'edificio proprio a Mecenate, il celebre  politico e statista collaboratore di Augusto. 

In realtà studi successivi hanno appurato non trattarsi di un vero Auditorium - anche se l'attributo è rimasto - ma piuttosto di un ninfeo o di un triclinio estivo del tipo di quelli rinvenuti a Pompei e a Stabia. 

Sicuramente il luogo era comunque frequentato da poeti e artisti, intellettuali dell'epoca visto il rinvenimento, negli affreschi superstiti, di versi di un epigramma del poeta greco Callimaco. 


Spettacolare è l'ampia abside a semicerchio occupata, per circa 4/7 dell'altezza da una scalinata costituita da sette gradini concentrici, che aveva fatto pensare per l'appunto, alla cavea di un auditorium. 

Sui lati lunghi della sala si aprono due serie di sei nicchie per parete, mentre altre cinque scandiscono quelle dell'abside. 

Rendono unico questo ambiente i mosaici, il pavimento in opus sectile, i marmi, la decorazione pittorica policroma ad affresco, sopra uno zoccolo marmoreo, che ricorda quella della Villa di Liva a Prima Porta, con splendide figure:  candelabri e pavoni, scene dionisiache e cavalleresche, da ricondursi ad epoche più recenti, tardoaugustee e neroniane. 

Il monumento è visitabile solo a gruppi accompagnati e su prenotazioni. Per informazioni cliccare QUI. 

Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata.

19/02/18

L'immensità della Cupola di San Pietro - i suoi numeri impressionanti.



Tutto è grandioso nella Cupola di San Pietro, creata dal genio di Michelangelo che per essa si ispirò alla Cupola di Santa Maria del Fiore di Firenze, derivandone una struttura a doppio guscio. 

Come si sa, Michelangelo diresse la costruzione di tutta la parte inferiore della Cupola fino al tamburo, che era quasi terminato, al momento della sua morte (1564). La cupola, dopo la morte del maestro rivestita di lastre di piombo, con l'interno a nervature, fu eretta in 22 mesi da Giacomo della Porta assistito da Domenico Fontana.  In altri 7 mesi infine fu completata la lanterna cuspidata. 

Diamo qualche cifra per intendere la maestosità dell'opera: la penna che tiene in mano S. Marco, in uno dei tondi di mosaico nei pennacchi della Cupola, è lunga circa 1 metro e mezzo.  La lanterna è alta più di 17 metri. 

Il diametro dei tondi con i 4 evangelisti è di 8 metri l'uno. 

Un'iscrizione latina, in mosaico su fondo dorato,  si svolge nel fregio della imponente trabeazione che gira tutto intorno alla chiesa; nel fregio della trabeazione all'imposta della cupola sono scritte le parole con le quali Gesù istituì la chiesa: Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam et tibi dabo claves regni caelorum.   

Da questo livello si eleva il tamburo con 16 finestre fra coppie di lesene che sorreggono il cornicione terminale, sopra cui si incurva la calotta. 

Questa è divisa da 16 costoloni fra i quali la decorazione a mosaico si svolge su 6 ordini. 

In cima, sopra i papi santificati e i dottori della Chiesa, seguono le figure sedute del Redentore, della Vergine, di San Giuseppe, del Battista e degli Apostoli, e infine ancora più in alto una teoria di angeli con vari simboli e i tondi con serafini. Nella Lanterna, sigilla l'immane costruzione, l'Eterno Padre benedicente. 

Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata




Un Hotel - Opera d'Arte. A Tokyo dall'8 all'11 marzo, i più grandi artisti giapponesi.



Tokyo, metropoli ricchissima di storia, arte e suggestioni, mostra l’arte anche in luoghi inaspettati. La cultura e le arti visive, la bellezza e la raffinatezza del fare giapponese creano tensioni positive in tutta la città, la fruizione continua di forme d’arte diviene ancora più emozionante quando, come nel caso del Park Hotel Tokyo, diviene anche un’emozione privata, come avere un museo personale. Qui non si osserva semplicemente il lavoro dell’artista, ma si entra nel pieno della cultura giapponese.

Il Park Hotel Tokyo, nella zona di Shiodome, racchiude l’opera di numerosi artisti giapponesi. Le camere d’artista, artist rooms, sono oltre trenta e tutte realizzate da artisti diversi, anche per genere ed età, ogni camera propone uno stile e un concept propri.

Alcuni artisti si sono ispirati a concetti fondamentali della cultura giapponese, come Hiroko Otake che nella Cherry Blossom room, si focalizza su ciliegi e farfalle, due simboli della caducità della bellezza naturale che esprimono il concetto del mono no aware: un concetto estetico giapponese che esprime al contempo una forte partecipazione emotiva alla bellezza e alla caducità mentre provoca una sensazione di nostalgia. Questo concetto del mono no aware si può ben comprendere osservando le fioriture degli alberi, come ad esempio la fioritura dei ciliegi, forse l’evento naturale più importante in Giappone, la cui bellezza, stupefacente, si somma alla malinconia di qualcosa che già non c’è più.

Le divinità o entità spirituali della tradizione giapponese hanno ispirato altri artisti, come Yuki Ninagawa nella sua Japanese Angel, incentrata sulla figura dell’angelo giapponese che indossa la tradizionale veste hagoromo; oppure Nobuo Magome nella sua Yokai, che raffigura una serie di creature soprannaturali e spiriti sia benigni sia maligni, gli yokai per l’appunto, della mitologia giapponese, in un leggero stile sognante quasi da fumetto.
I simboli della tradizione giapponese e della letteratura classica sono il fulcro di altre camere, dove la tradizione prende vita grazie all’interpretazione eterogena degli artisti. Nella stanza d’artista The Tale of Genji, di Takushi Mizuno, l’ospite potrà ritrovarsi immerso nelle antiche atmosfere dell’epoca Heian della fondamentale opera letteraria giapponese degli inizi del XI secolo “Genji Monogatari” (in italiano, “il racconto di Genji”); mentre nella stanza Otafuku Face della giovane Aki Kondo il visitatore sarà circondato dal paffuto viso della otafuku (simbolo di bellezza classica giapponese) dipinto in chiave moderna.

Anche le arti tradizionali prendono spazio nelle camere d’artista Kabuki di OZ - Yamaguchi Keisuke ispirata all’arte teatrale del kabuki, nella camera Sumo di Hiroyuki Kimura che si ispira allo storico sport nazionale giapponese e Zen del calligrafo Seihaku Akiba, dedicata alla comprensione della profonda spiritualità giapponese zen.

Alcuni degli artisti parleranno inoltre del loro lavoro nelle Artist Room in occasione dell’evento espositivo ART in PART HOTEL TOKYO 2018 in programma dal prossimo 8 marzo fino all’11 marzo all’interno dell’hotel in concomitanza con la Art Fair Tokyo, la più grande fiera d’arte internazionale del Giappone.

Da Shiodome passiamo al lussuoso quartiere di Ginza a Tokyo, nel complesso commerciale cosmopolita GINZA SIX, dove l’arte e la cultura sono presenti in molte forme, a partire dal progetto di public art con la supervisione del Mori Art Museum di Roppongi, in collaborazione con un gruppo di noti artisti giapponesi, fino al Teatro noh, l’antica arte teatrale giapponese. Non manca in questo spettacolare edificio un suggestivo roof-top garden ispirato al periodo Edo. Il GINZA SIX è stato inaugurato nel 2017 con l’installazione Pumpkin di Yayoi Kusama, 14 enormi zucche a pois rosse occupavano l’imponente spazio centrale della struttura.

In esposizione permanente, invece, le opere di artisti quali Misa Funai, che con Paradise/Boundary/Portraitcattura lo spazio reale trasformandolo in tela grazie alla commistione tra mondo pittorico e realtà degli specchi che compongono l’opera, dove lo spettatore in un’immagine riflessa diviene parte dell’opera.

Il designer JTQ Junji Tanigawa a GINZA SIX ha curato su due “pareti viventi”, ognuna dell’altezza di 12 metri posizionate una di fronte all’altra. La prima, Living Canyon, del botanico e artista Patrick Blanc, si compone di un mix di piante, alcune tipiche giapponesi, che formano un precipizio rigoglioso illuminato dalla luce solare; l’altra, Universe of Water Particles on the Living Wall, è un’installazione digitale ultratecnologica che affonda su parte dell’opera di Blanc e crea una suggestiva cascata che varia il suo aspetto con il mutare della luce solare. Si tratta di una simulazione realizzata da teamLab, un gruppo di esperti di tecnologia digitale le cui creazioni che uniscono arte, scienza, tecnologia e considerevole creatività. TeamLab in Italia ha creato alcune delle installazioni nel padiglione giapponese di ExpoMilano2015.