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20/03/24

Sull'ottovolante con "The Gentleman", geniale e divertente serie di Guy Ritchie su Netflix


E' rutilante, dal ritmo indiavolato, divertente e stilosa - e ancora ad alto livello - la nuova serie britannica "The Gentleman" appena lanciata da Netflix, creata dal geniaccio sregolato e incline a capitomboli imbarazzanti di Guy Ritchie, che nonostante alcune cose buone o molto buone che ha fatto, ancora fatica a togliersi di dosso la fama di "(ex) marito di Madonna".
Qui si tratta del riutilizzo (o meglio dello spin-off come dicono quelli che ci capiscono) di un'idea divenuta già a suo tempo un film, scritto e diretto da Ritchie nel 2019, con lo stesso titolo: "The Gentleman", uscito nel 2019, con un gran cast (McCaughney, Hugh Grant, Michelle Dockery, Colin Farrell) che, incappato nella pandemia da Covid, ha comunque incassato 115 milioni di dollari.
Ritchie rilancia dunque l'idea, espandendo la storia in 8 divertenti e elaborati episodi in cui assistiamo alle (complicate e grottesche) vicende riguardanti un giovane nobile inglese, Edward Horniman che eredita inaspettatamente (pur essendo secondogenito) la tenuta di 15.000 acri e il titolo di Duca di Halstead per volontà e testamento del padre recentemente scomparso.
Dietro la nomina prestigiosa, però si nasconde un incubo: Edward apprende infatti che la terra di famiglia è diventata da anni, parte di un impero segreto di coltivazione di erbe infestanti gestito dal gangster Bobby Glass.
Ora deve esplorare un mondo di personaggi eclettici e pericolosi con obiettivi nefasti, cercando allo stesso tempo di proteggere la sua casa e restare in vita.
L'idea di fondo, del film come della serie, che sta a cuore a Ritchie, è quella di mostrare - con una certa perfidia - come la classe aristocratica (britannica, in questo caso) e la criminalità organizzata più violenta siano fatte, in fondo della stessa identica pasta, basata sulla violenza, l'umiliazione e la sopraffazione.
E i buoni propositi morali dell'inizio saranno ben presto travolti da questa evidenza, capace di corrompere anche l'apparentemente savio Edward.
La serie è girata magistralmente, le musiche originali sono fantastiche. Il cast vede protagonista il bel tenebroso Theo James nei panni di Edward e una serie di ottimi comprimari, tra cui tre attrici brave e bellissime: Kaya Scodelario nei panni di Susie (la figlia del boss), la francese Gaia Weiss e Ruby Sear nei panni di Gabrielle.
Si ride molto, la sceneggiatura è scoppiettante ed è un fuoco di fila di trovate (a tratti correndo anche il rischio di rendere esausto lo spettatore), che oscillano sui registri dei Coen, di Scorsese e di Tarantino.
Raccomandato.

Fabrizio Falconi - 2024

 

02/01/24

"SALTBURN" IL FILM DI EMERALD FENNELL, GENIALE E DISTURBANTE


"Saltburn" è quello che una volta si definiva un film "disturbante".

Lo ha scritto e diretto la geniale londinese trentottenne Emerald Fennell, alla seconda prova dopo l'assai interessante "Una donna promettente", candidato all'Oscar 2021 come migliore sceneggiatura e al Golden Globe come miglior film drammatico.
La Fennell lanciata dalla serie di successo "Killing Eve", da lei ideata e scritta, è ormai diventata un po' la gallina dalle uova d'oro del nuovo cinema anglosassone.
E lo è per merito, perché i suoi lavori sono sempre originali, spiazzanti, qualitativamente alti, notevoli per scrittura e realizzazione.
Con "Saltburn" la Fennell non ha avuto paura di compiere un passo ulteriore, affrontando un copione tutto 'in negativo', una specie di discesa ad inferos, realizzata attraverso la particolarissima "formazione" di un apparente "absolute beginner" (di famiglia borghese) alla scoperta del mondo della alta nobiltà britannica.
Sostanzialmente alla Fannell interessava provare a realizzare un film "cattivo", un film cioè sul male, sulla corruzione, sulla trasgressione, sul rovesciamento delle parti sociali, sulla vendetta, l'ambiguità e sulla frustrazione, partendo da esempi illustri come "Il servo" di Joseph Losey (1963), capolavoro del cinema inglese, oppure lo stesso "Parasite" di Bong Joon Ho dominatore degli Oscar 2019.
Si può dire poco della trama, se non si vuole spoilerare e dunque rovinare il piacere dello spettatore nello scoprire le molte sorprese che si dipanano lungo la storia.
Basterà dire che Barry Keoghan (uno dei tanti bravissimi attori qui convocati) straordinario nell'impersonare il luciferino Oliver Quick (evidente richiamo ad Oliver Twist) approdato a Oxford come studente, cerca in ogni modo di diventare amico dell'irraggiungibile Felix, bellissimo e ricchissimo, appartenente alla aristocratica famiglia dei Catton.
Nella primaria illusione che Oliver sia soltanto un innocuo e tenero parvenu in cerca d'affetto, è nascosta invece la rivelazione di una terribile escalation di crudeltà, che al termine delle due ore, non conosce alcun riscatto morale.
"Saltburn" è una favola nera, che mette a nudo l'incapacità post-moderna di riconoscere e vivere i sentimenti - quindi direi, molto attuale - e il tentativo generalizzato di scambiarli con emozioni ed esperienze forti, in grado di annullare la richiesta che ogni sentimento ci chiede: quella della consapevolezza.
Oliver è una brillante personificazione del male, e il suo balletto finale, con nudo integrale, attraverso le sale del castello dei Catton, un colpo assoluto di genio (oltre che un virtuosismo registico).
Detto questo, la Fannell stavolta sembra esagerare: alcune trovate paiono fuori luogo, inutilmente trasgressive, immotivate. E anche la scrittura non ha un crescendo così irresistibile come quella del suo film precedente (che non ha mai cadute).
Barry Keoghan, dopo "Dunkirk" di Nolan, "Il sacrificio del servo sacro" di Lanthimos e "Gli spiriti dell'Isola" di Mc Donagh si conferma uno straordinario giovane attore, al quale questo personaggio si attaglia in modo perfetto (nato a Dublino nel quartiere di Summerhill, Barry è nato da una madre eroinomane, quindi dai 5 ai 12 anni fu affidato a tredici famiglie affidatarie diverse, assieme a suo fratello Eric, potendo vedere la madre soltanto nei fine settimana. Nel 2004 la madre morì a trentuno anni per un'overdose, lui e il fratello furono affidati alla nonna e alla zia.)
Accanto a lui, un ottimo cast che mette insieme giovani talenti del cinema anglosassone, tra cui l'australiano Jacob Elordi, nei panni di Felix, oltre a Rosamund Pike e la stessa Carey Mulligan nella parte di Pamela.
Esteticamente il film si fa apprezzare per la brillante regia che ripropone i colori e le atmosfere di "Patrick Melrose" (la serie) e per le musiche, sempre adeguate e originali.
Un film che va visto, e che anche se, mentre lo si vede, si fa di tutto per non prenderlo sul serio, alla fine lascia molta inquietudine e molte domande, il che - nel cinema di oggi - è un raro pregio.

Fabrizio Falconi - 2023

29/12/23

IL NASO SOMIGLIANTE, MA RIGIDO DI BRADLEY COOPER E' COME IL SUO FILM


Non mi ha coinvolto "Maestro" di Bradley Cooper, 2023, uscito in première mondiale sotto Natale (presumo per poter gareggiare per gli Oscar di quest'anno, e probabilmente farne man bassa).

E' un film di sforzo produttivo notevolissimo (c'è un esercito di produttori tra cui spiccano Martin Scorsese e Steven Spielberg) e tutti sappiamo - dalle molte interviste rilasciate per il lancio del film - che Bradley Cooper, anche regista, ha realizzato uno sforzo titanico, durato 5 anni, per rendere e rendersi il più somigliante possibile a Leonard Bernstein, curandone maniacalmente ogni aspetto: gestualità, voce, modo di fumare (la sigaretta è qui una sorta di protesi attaccata alla sua mano), tic, impeti durante la direzione d'orchestra, modo di sorridere, ecc..
E però, alla fine, è proprio questo il punto: è un film davvero TROPPO costruito, troppo perfetto, troppo studiato, preparato. E come è noto, dalla perfezione è raro che nasca qualcosa di realmente coinvolgente ("dai diamanti non nasce nulla, dal letame nascono i fior..." cantava Fabrizio De André).
Il simbolo di questa perfezione è il naso "alla Bernstein" che Cooper si è fatto installare sul volto. E' perfetto, è il naso "DI" Bernstein, ma è terribilmente rigido (essendo di lattice, presumibilmente): quindi quando parla, nei rari primi piani, ci si accorge del trucco, perché sembra di gesso e non fa una minima piega che segua le espressioni del volto.
Insomma, Cooper ha realizzato un ottimo e bel film, ma senza anima, come il suo naso. Perché anche la sua prestazione-monstre di attore a tutto campo, mentre dirige, fa parte di quel modo di recitare che appartiene più al tipo di recitazione da Museo delle Cere, che all'arte del Cinema.
Ricorda, fatte le debite proporzioni, il Craxi di Favino di qualche anno fa: anch'esso mostruosamente somigliante (migliaia di ore di trucco, come qui in "Maestro"), ma non una vera grande "prova d'attore", perché l'arte della recitazione non è imitazione, ma interpretazione: è inventare, rielaborare, fornire nuovi contributi per la comprensione di un essere umano o dei sentimenti umani, non pedissequa ricostruzione: quella è un'altra arte, è l'arte del documentario, del racconto biografico.
Ma il Biopic va sempre alla grande, ed è la strada più sicura, per raggiungere il massimo del plauso e dei riconoscimenti (primariamente, Oscar).
Detto questo, il pregio encomiabile del film è nella regia: qui Cooper ha cercato coraggiosamente strade originali, con l'utilizzo di molti (forse troppi) campi lunghi, molte inquadrature fisse, molti piani sequenza. Perfino nella scena madre del film, quella del litigio tra i coniugi che, potendo contare su due attori straordinari come Cooper e la Mulligan, si svolge INTERAMENTE in campo lungo, senza mai mostrare l'espressione in primo piano, del volto di uno di loro.
Tutto questo confeziona una veste di grande eleganza al film (comunque indeciso tra diversi stili, perché nella prima parte sembra orientarsi al musical, mentre nel prosieguo diventa racconto intimista), una eleganza però fredda, priva di vero coinvolgimento.
E' chiaro che a Cooper interessava soprattutto tessere l'elogio di una relazione amorosa - quella tra Bernstein e la moglie Felicia - difficile e anticonformista, basata sull'eroico senso di tolleranza di lei, che accetta di vivere con un uomo-artista diviso a metà, diviso cioè tra la moglie e i figli, e i suoi continui e sempre più importanti amori maschili.
In questo, Carey Mulligan si conferma forse la migliore attrice oggi in circolazione, e regala grazia e commozione al suo personaggio, anche se nei continui dialoghi quasi sempre circonvoluti, di cui è disseminato il film, quasi mai si riesce a cogliere il pieno senso di questo "patto" esistente tra i due e il vero, misterioso, legame che li unisce.
Ultima notazione: la musica NON è l'elemento più importante del film, e sembra rimanere piuttosto in sottofondo, con l'unica eccezione del lunghissimo piano sequenza della esecuzione in chiesa del finale della Sinfonia n. 2 di Mahler, che è anche la scena dove Cooper quasi si supera nel gioco di vero-simiglianza con il Maestro.

Fabrizio Falconi - 2023

30/11/23

"Little Fish" di Rowan Woods, un film che colpisce il cuore

Duro come una pietra, ma colmo di umanità. Vincitore dei più importanti premi nel suo paese, il film di Woods affonda nel dramma di una famiglia imprigionata nel suo passato: la madre, Janelle, ne è l'origine - i suoi sbagli, le sue debolezze.
Abbandonata dal suo uomo, si è legata per un periodo ad un ex stella del rugby (in Australia sport nazionale), Lionel Dawson, precipitato nell'abisso dell'eroina a fine carriera.
Il patrigno, prima di essere buttato fuori di casa, ha trasmesso il suo virus di dipendenza ai due figli di Janelle: Ray (Martin Henderson) e Tracy (Cate Blanchett).
Il film ha inizio quando Ray e Tracy sono venuti fuori dall'incubo, si sono da tempo disintossicati, mentre Lionel è ancora in fondo al tunnel, vicino all'autodistruzione.
E' Tracy a prendersi cura di lui: tra i due c'è un rapporto di bene, di soccorso e riconoscimento reciproco.
Ma è dura: Lionel infatti si è messo nelle mani di un losco trafficante, Brad Thompson (Sam Neill) e del suo violento scherano.
La lotta per l'emersione a una vita accettabile è vissuta dalla parte di Tracy che vorrebbe davvero rinascere, ma trova ostacoli ovunque, porte chiuse ovunque, anche - come è sempre stato - dai membri stessi della sua famiglia.
Il dramma vive attraverso la sua sensibile interpretazione, attraverso i suoi occhi liquidi, che tutto sembrano attraversare, accettare, rifiutare. La fatica di vivere per arrivare a sentirsi degni di essere umani.
Rowan Woods ambienta il film nella periferia anonima - ad alto tasso di asiatici - di Sidney, dove Tracy lavora in un negozio di noleggio e vendita di videogames, filmato con una fotografia "sporca", ambienti scarni, ordinari, depressivi e una città fuori che nemmeno si vede, veramente.
La catarsi di Tracy verrà seguita passo dopo passo: ogni personaggio ha una sua verità realistica, il regno della famiglia non è mai stato così permeabile, così indifeso e fragile.

Un film che merita di essere visto e al quale si pensa a lungo. 


Fabrizio Falconi - 2023 

25/08/23

"Il senso di una fine", il meraviglioso romanzo di Julian Barnes diventa un film, con Charlotte Rampling - su Amazon Prime Video


E' sempre molto difficile portare sullo schermo un romanzo importante. Ancora di più se si tratta di un romanzo "perfetto", uno dei migliori scritti nell'ultimo ventennio: "Il senso di una fine", di Julian Barnes (Einaudi, 2011), vincitore del Man Booker Prize 2011.

Come si fa a trasferire sullo schermo la magia della prosa di Barnes, che in sole 160 pagine costruisce una tragedia in due atti (o parti) sul mistero degli affetti umani, con uno straordinario colpo di scena che si rivela solo nelle ultime 3 pagine?
In Inghilterra ci ha provato la rete nazionale (BBC), che a differenza di quel che accade da noi, non manda in onda solo quiz dementi e show di imitatori, ma propone e produce anche alta qualità cinematografica, seriale, documentaristica.
Il film è uscito nel 2017, anche se in Italia nessuno lo ha visto (naturalmente i titolisti italiani hanno pensato bene di stravolgere il titolo originario, sia del romanzo che del film - che è "The Sense of an Ending" , letterariamente "Il senso di un finire", o "Il senso di una fine", come è stato tradotto da Einaudi - in "L'altra metà della storia").
Il cast è di primo livello, con Charlotte Rampling nei panni della misteriosa Veronica (da anziana) e Jim Broadbent in quelli di Tony Webster, che con Veronica ha avuto una incompiuta storia d'amore, ai tempi del college. Nel cast anche Michelle Dockery (la Lady Marian di Downton Abbey) e Joe Alwyn (visto recentemente in Conversazione tra amici, la serie tratta dal romanzo di Sally Rooney), nei panni di Adrian, l'amico di college di Tony, misteriosamente suicidatosi da giovane.
Per misurarsi con un romanzo così intenso e denso, il film non se la cava male (la regia è dell'indiano Ritesh Batra), ma lasciano a desiderare i tempi morti, i dialoghi irrisolti, il finale da "happy ending" che non è affatto quello del romanzo.
La Rampling praticamente appare in tutto in 4 scene, anche se bastano per manifestare il suo inquietante talento; le musiche di Max Richter sono molto belle; la Londra del film è come sempre, piovosa e malinconica (come si addice al mood della storia).
Barnes non è intervenuto nella sceneggiatura, che è del solo Nick Payne, il quale ha dilatato (troppo) l'attesa che si respira nel romanzo, stemperandone anche (purtroppo) l'inquietudine.
Complessivamente, tenendo conto delle suddette difficoltà, un film che supera la prova. Il romanzo, però, è - come sempre - un'altra cosa.

16/06/23

"Blue Jay" (2016), un gioiello su Netflix, per commuoversi senza sentirsi in colpa


'Blue Jay' (2016)
è uno strano, toccante film indipendente, che dura solo 80 minuti, ora visibile su Netflix.

E' così strano che è anche difficile chiamarlo 'film', somigliando più a una confessione 'in presa diretta' o a una duplice prova d'attore.
Lo ha realizzato in un elegante bianco e nero Alex Lehmann, su un copione scritto da Mark Duplass, che è il protagonista maschile del film.
La storia - se storia si può chiamare - è presto detta: in un supermercato si rincontrano dopo molti anni, Jim e Amanda, che sono stati insieme da giovanissimi: un primo amore intenso, finito male.
Il caso li ha riportati lì nello stesso momento: lui deve chiudere la casa della madre che è morta, lei è venuta in visita alla sorella che è incinta.
Il film descrive le ore di questa giornata e della notte trascorsa insieme, tra allegria - ritrovando molta di quella magia che li aveva fatti innamorare l'uno dell'altro da giovanissimi - e principio di realtà - misurando la distanza tra quel che si era, quel che si voleva diventare e quel che si è diventati.
Un pretesto narrativo che sembrerebbe fin troppo facile.
Eppure il film vince la scommessa, facendosi apprezzare proprio per semplicità, misura, autenticità.
Gran merito è dei due attori, sempre in scena: Mark Duplass (impacciato e simpatico, ironico, irrisolto) e soprattutto Sarah Paulson, incantevole e di bravura davvero mostruosa.
'Blue Jay' ha girato molto nei festival di cinema indipendente, poi è riaffiorato grazie alla piattaforma globale e ha trovato un suo pubblico. Meritatamente. Si ride e ci si commuove, senza facili ricatti.

Fabrizio Falconi - 2023

01/03/23

Ma perché nessuno parla di "Athena"? Il grande film di Romain Gavras


Ma perché nessuno parla di Athena?

Dopo l'inaugurazione del Festival di Venezia 2022, in concorso ufficiale, e gli applausi, il film di Romain Gavras, 43enne figlio d'arte, del grande Costa-Gavras, sembra caduto nell'oblio.
Eppure si tratta di uno dei film più importanti della stagione, destinato a durare. L'affresco epico - in presa diretta, virtuosisticamente girato - dei durissimi scontri che avvengono ad Athena, banlieu parigina abitata soprattutto da immigrati e figli di immigrati musulmani, prende il via dopo che il video della uccisione di un ragazzo di 13 anni, Idir, apparentemente da parte di poliziotti, diventa virale.
Quando il quartiere viene occupato e messo a ferro e fuoco dai rivoltosi, il film segue le vicende dei 3 fratelli di Idir, direttamente coinvolti nei propositi di vendetta, da una parte e l'altra delle barricate, con la polizia che cerca di riprendere il controllo dei territori occupati e i rivoltosi che prendono in ostaggio un poliziotto per ottenere la consegna dei responsabili della morte di Idir.
E' un film visivamente, esteticamente, drammaturgicamente straordinario, che si vive come se si fosse lì, in mezzo al frastuono e all'orrore - tra Pasolini e Pontecorvo - e non si dimentica.
Alla critica di sinistra - in patria - compresa Libération, non è piaciuto perché distribuito da una grande piattaforma - Netflix - e per motivi politici (alla fine la polizia viene discolpata, non sono stati loro i responsabili, ma un gruppo di estrema destra con false divise della polizia).
All'estero invece, i consensi e gli entusiasmi sono stati pressoché unanimi, da Variety a Rolling Stone.
Già solo il long take iniziale - prodigioso, più di 10 minuti, con utilizzo di droni - varrebbe da solo il prezzo del biglietto, come si diceva una volta.
Ma tutto il film si fa ammirare per coraggio, crudezza, forza emotiva, contenuti impliciti.
Se davvero si voleva un'opera di denuncia contro la follia umana, contro la follia delle faide umane, delle guerre, della violenza, e se soprattutto dalle parti di Hollywood fossero più coraggiosi, sarebbe stato più giusto e doveroso dare 9 candidature ad Athena, piuttosto che all'innocuo e preconfezionato The Banshees of Inisherin, adesso sulla bocca di tutti.

Fabrizio Falconi - 2023

26/02/23

"Atonement" ("Espiazione") - Un film da vedere o rivedere, per le vostre serate.


Atonement ("Espiazione"
)
attualmente visibile su Amazon Prime Video senza costi aggiuntivi, è un film che merita di essere visto o rivisto per tanti motivi.

E' tratto dall'omonimo romanzo di Ian Mc Ewan, sicuramente quello di maggiore successo (ma a mio avviso non il migliore: per me McEwan ha espresso il meglio con i romanzi precedenti a Bambini nel Tempo, quest'ultimo compreso, che resta il suo capolavoro).
La vicenda nasce alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale: per via della fantasia morbosa di una adolescente - Briony - che ha velleità di scrittrice, il figlio di una vedova che lavora alle dipendenze di una famiglia aristocratica con magione in campagna, viene ingiustamente accusato di aver violentato una ragazzina.
Dopo la prigione, la sua Espiazione si concretizza nella partenza per il fronte dove Robbie - questo il nome del ragazzo - si trova, come migliaia di altri soldati inglesi, imprigionato nell'inferno di Dunkirk (o Dunkerque).
L'accusa infamante ha interrotto sul nascere la storia d'amore con Cecilia - la bellissima sorella maggiore di Briony - che rompe con tutta la famiglia (e con la sorella of course) e aspetta il ritorno dell'amato.
Il film è spettacolare ed è la miglior prova di Joe Wright, talentuoso regista inglese che dopo la terna di film con Keira Knightley protagonista (oltre a questo, "Orgoglio e pregiudizio" e "Anna Karenina"), si è perso per strada, con film brutti o non riusciti.
Atonement è però straordinario per impegno produttivo, per le scene girate, e per gli attori che vi partecipano.
Da ricordare - ed è già materia di insegnamento nelle scuole di cinema - l'incredibile piano sequenza di ben 5 minuti, sulla spiaggia di Dunkirk con centinaia e centinaia di comparse, cavalli, rovine, carri armati e la macchina da presa che serpeggia tra di loro sinuosamente, senza mai fermarsi: un vero e proprio prodigio.
Keira Knitghley è al massimo del suo splendore, e nella prima parte del film emana potente fascino erotico e sentimento.
Il cast è completato dal meglio del cinema inglese: James Mc Avoy è Robbie, la qui giovanissima Saoirse Ronan è Briony, Brenda Blethyn è la madre di Robbie, Benedict Cumberbatch è l'infame Marshall.
Standing ovation infine, per la mitologica Vanessa Redgrave, che regala un monologo finale di una decina di minuti, da portare sull'isola deserta.

Fabrizio Falconi - 2023

30/04/22

Libro del Giorno: "La Roma di Pasolini" (Dizionario urbano) di Dario Pontuale

 


Tra le molte, moltissime uscite editoriali (anche troppe) concomitanti con il centenario della nascita del poeta, si segnala degno di nota questo volume uscito dalla Nova Delphi e firmato da Dario Pontuale, che si concentra sulla Roma di Pasolini, scandagliando in trecento serrate pagine, il rapporto e la vicenda sentimentale esistenziale e letteraria che Pasolini ha intessuto con la città che lo accolse, nel gennaio del 1950, insieme alla madre, entrambi sfollati dal nord-Italia dopo i tragici accadimenti della sua famiglia, con la morte dell'amato fratello diciannovenne Guido, ucciso nel 1944 durante i fatti di Porzus. 

A Roma, come è noto, Pasolini cambiò vita e poi anche mestiere. In un irrequieto e continuo spostamento, insieme alla madre, di quartiere in quartiere, alla ricerca di una sistemazione e di un lavoro, Pasolini, durante il periodo dell'insegnamento in una scuola privata di Ciampino, fece il suo apprendistato romano appropriandosi soprattutto di quel mondo di diseredati e poveracci che popolava le borgate e le periferie della Capitale, le quali a partire da quegli anni, conobbero una espansione micidiale e incontrollata, "effetto collaterale" del cosiddetto "boom economico" che avrebbe trasformato rapidamente gran parte della gente di Roma, per l'orrore di Pasolini, testimone furibondo di questi cambiamenti, in piccoli borghesi o aspiranti tali. 

La vita di Pasolini a Roma si svolgeva, rutilante, in quegli anni, su un doppio binario: quello della sua vita privata, consumata a metà tra la gente di periferia, dove inseguiva il mito di un "buon selvaggio" ormai in via di estinzione, e i salotti intellettuali di Roma dove venne molto gradatamente accolto grazie all'amicizia di poeti e scrittori (in primis Sandro Penna, Attilio Bertolucci, Caproni, poi Moravia); e quello della sua vita pubblica, con i primi romanzi pubblicati, le controversie con i critici e con la censura e poi il folgorante esordio cinematografico con Accattone (1961) che gli aprì le porte della riconoscibilità, della considerazione internazionale, del mondo polemico e controverso delle battaglie civili di quegli anni, dentro una Italia fossilizzata nella gabbia di valori cattolici non più sentiti veri, molto lontani dal reale sentire di un popolo che era stato stremato dalla dittatura, dalla terribile guerra e voleva ricominciare a vivere, a modo suo. 

Il libro di Dario Pontuale racconta tutto questo e lo fa in modo originale, sotto forma di un pratico dizionario - quasi una sorta di moderno baedeker - che riassume in più di un centinaio di voci i luoghi romani che appartengono a quella che ormai è la mitologia pasoliniana: i suoi ristoranti, i suoi quartieri, le sue strade, le sue case, le tappe che hanno scandito la sua vita romana, consumata in appena venticinque anni eppure densissima di cose, avvenimenti, eventi tragici, fino al suo assassinio nella terribile notte di novembre del 1975. 

Ogni voce, nel libro di Pontuale è minuziosamente descritta; ogni borgata o quartiere periferico di Roma che ha visto il passaggio di Pasolini, la sua presenza. Il libro inoltre sfrutta un pratico espediente ipertestuale, per collegare tra di loro le diverse voci pasoliniane, permettendo al lettore, anche quello più attrezzato, di orientarsi, scovando dettagli e cose nuove. 

Oggi più che mai, riscoprire il cammino di Pasolini dentro Roma, il suo sviscerato amore e il suo sviscerato odio per la città che meglio di ogni altra rappresentava il collasso del mondo arcaico/contadino/proletario italiano e il trionfo del nuovo conformismo borghese, aiuta a capire meglio il nostro paese e anche a riscoprire la città della grande bellezza, in una veste del tutto nuova e ancora più autentica. 



29/01/22

Come rifare 50 anni dopo, "Scene di un matrimonio" di Bergman e come farlo meravigliosamente bene


Si pensava che fosse impossibile e impensabile imbarcarsi in un remake da un'opera mitologica come "Scene da un matrimonio" che Ingmar Bergman realizzò per la televisione qualcosa come 50 anni fa, nel 1973, archetipo e prototipo delle "serie" televisive, che nasceranno soltanto 30 anni più tardi.

Invece l'israeliano Hagai Levi non solo ci ha provato, ma ha realizzato un miracolo.

D'altronde Levi è il più brillante scrittore e creatore della sua generazione, basti pensare che ha inventato il "format" di In Treatment, (nell'originale israeliano Be Tipul), poi esportato e rifatto negli USA e in decine di altri paesi.

Prodotto dalla Hbo, la più raffinata delle reti, Hagai Levi ha riscritto interamente il copione bergmaniano, operando alcune coraggiose modifiche: tagliando la puntata n.2 di Bergman (quella che aveva il meraviglioso titolo "L'arte di nascondere la polvere sotto il tappeto") - e quindi qui sono 5 non 6 - e invertendo i ruoli dei protagonisti:  nella serie 2021 non è il marito a tradire e a andarsene, ma la moglie. E di conseguenza, tutto avviene a parti invertite.

La sostanza però non cambia. Ma tutto viene "aggiornato" secondo lo zeitgeist, lo spirito del tempo, di oggi.

Ed è una serie dolorosissima, come l'originale, ma necessaria.

5 puntate meravigliose, contenute nel claustrofobico legame tra Jonathan (Oscar Isaac) e Mira (Jessica Chastain), che non riescono ad essere all'altezza dell'amore che li lega, del sentimento che sentono l'un l'altro, che sabotano - come spesso succede - questo rapporto e anche le loro vite individuali, alla ricerca di aria, di libertà, di spazio, di crescita evolutiva, di emancipazione, salvo ritrovarsi poi all'apparente punto di partenza, sconsolatamente orfani di qualcosa che hanno perduto e che non può ormai più essere rimesso in piedi - se non sotto forma di affetto o scarna sessualità estemporanea.

Quest'opera riesce insomma ad essere degna dell'originale bergmaniano (anche se ovviamente, nelle mani del maestro, tutto ciò si trasformava in una delle sue ricerche da entomologo sulla natura e sulle ombre dell'animo umano).

Tutto ciò grazie a due attori veramente straordinari, Jessica Chastain e Oscar Isaac che si mettono in gioco completamente, esponendo con se stessi, la nudità completa dei loro personaggi, indagati instancabilmente da primi o primissimi piani.

I due meritavano e hanno vinto innumerevoli, meritatissimi premi.

Il segreto della loro alchimia sul set, sembra nasca dal fatto che si conoscono da tantissimo tempo, essendo ex compagni di corso nella mitica Julliard School che ha sfornato innumerevoli talenti negli ultimi anni.

Ogni piega, ogni dolore, ogni lacrima, ogni sorriso, ogni violento litigio, ogni compassione o riappacificazione è dunque qui mostrata con naturalezza, con estrema verità.

Una serie che è una delle più belle e sostanziose sorprese di questi ultimi due difficilissimi anni, per tutti.

Fabrizio Falconi - 2022

10/01/22

Qual é il più famoso dei film non realizzati? C'erano di mezzo Kubrick e Jack Nicholson

 


Non v'è dubbio che, per il prestigio unico del regista - Stanley Kubrick - e l'imponenza del soggetto e della produzione, questo sia per molti, il più famoso film tra quelli mai realizzati. 

Dopo 2001: Odissea nello spazio, Kubrick progettò infatti di girare un film sulla vita di Napoleone . Affascinato dalla vita dell'imperatore e dal fascino della sua "autodistruzione", Kubrick trascorse molto tempo a pianificare lo sviluppo del film e conducendo per circa due anni meticolose ricerche sulla vita di Napoleone, leggendo diverse centinaia di libri e ottenendo l'accesso alle sue memorie personali e commenti. 

Cercò anche di vedere tutti i film su Napoleone e non ne trovò nessuno attraente, incluso il film di Abel Gance del 1927 che è generalmente considerato un capolavoro, ma per Kubrick un film "davvero terribile". 

I critici erano unanimi nel considerare Napoleone un soggetto ideale per Kubrick, abbracciando la "passione per il controllo, il potere, l'ossessione, la strategia e l'esercito" di Kubrick, mentre l'intensità e la profondità psicologiche di Napoleone, il genio logistico e la guerra, il sesso e la natura malvagia dell'uomo erano tutti ingredienti che non potevano non attrarre profondamente Kubrick

Kubrick preparò una sceneggiatura nel 1961 e prevedeva di realizzare un'epopea "grandiosa", con scene di massa che includevano l'utilizzo di 40.000 fanti e 10.000 cavalieri. 

Aveva intenzione di assumere le forze armate di un intero paese per realizzare il film, poiché considerava le battaglie napoleoniche "così belle, come vasti balletti letali", con una "brillantezza estetica che non richiede una mente militare per essere apprezzata". 

Voleva che fossero replicati il ​​più fedelmente possibile sullo schermo. 

Kubrick inviò gruppi di ricerca alla ricerca di location in tutta Europa e spedì lo sceneggiatore e regista Andrew Birkin , uno dei suoi giovani assistenti nel 2001, all'Isola d'Elba , Austerlitz e Waterloo, per scattare migliaia di foto perché Kubrick potesse studiarle.  

Kubrick si avvicinò a numerose star per interpretare ruoli da protagonista, tra cui Audrey Hepburn per l' imperatrice Josephine , una parte che non poteva accettare perché aveva da poco avuto un figlio. 

Gli attori britannici David Hemmings e Ian Holm vennero considerati per il ruolo principale di Napoleone, prima che la scelta cadesse definitivamente su Jack Nicholson. 

Il film era in fase di pre-produzione ed era pronto per iniziare le riprese nel 1969, quando la MGM annullò il progetto

Sono state addotte numerose ragioni per l'abbandono del progetto, compreso il costo previsto, un cambio di proprietà presso MGM, e la scarsa accoglienza che il film sovietico del 1970 su Napoleone, Waterloo , aveva ricevuto. 

Nel 2011, Taschen ha pubblicato il libro Stanley Kubrick's Napoleon: The Greatest Movie Never Made, una raccolta di documenti originali di Kubrick, come idee per foto di scene e copie di lettere che Kubrick ha scritto e ricevuto in quei due anni. 

Nel marzo 2013, Steven Spielberg, che in precedenza aveva collaborato con Kubrick all'intelligenza artificiale AI ed è un appassionato ammiratore del suo lavoro, ha annunciato che avrebbe sviluppato Napoleon come miniserie TV basata sulla sceneggiatura originale di Kubrick, ma anche questo progetto, per ora, non ha mai visto la luce. 




02/01/22

Intervista al regista del momento, Adam Mc Kay: "Perché ho voluto fare "Don't Look Up!"

 



Don't Look Up  è sicuramente uno dei film dell'anno (scorso, ma anche il presente), visto l'enorme successo che ha riscosso al cinema (nei paesi dove è stato proiettato in sala) e sullo streaming globale di Netflix, merito anche di un cast veramente stellare.

Un film che ha diviso il pubblico tra commenti molto estremizzati - tanti lo hanno adorato e trovato bello e importante, quanto altri l'hanno stroncato nelle loro bacheche socials. 

Anche la critica "ufficiale" ha fornito recensioni di toni molto diverse.

In molti si sono chiesti quale sia, in fondo, il vero obiettivo del film e quali le intenzioni del regista e autore, Adam Mc Kay (premio Oscar per La grande scommessa, nel 2015).

E' particolarmente interessante perciò quel che Mc Kay spiega in una recente intervista: 

“Sapevo di voler fare qualcosa per la crisi climatica e stavo cercando di trovare un modo per affrontarla”, parte di ciò che fai quando fai film è provare a fare film che ti piacerebbe vedere personalmente, quindi mi sono semplicemente chiesto: ‘Puoi fare qualcosa per la crisi climatica e ridere ancora un poco?’ Fortunatamente, mi è venuta questa idea che sembrava la perfetta miscela delle due. Non c’è dubbio, dopo Vice, avevo voglia di ridere”.

Ma Don’t Look Up appare molto lontano dallo stereotipo del film comico e sembra invece piuttosto una pellicola che ha a cuore una forte denuncia sociale: la descrizione di una società regredita a meccanismi adolescenziali o infantili, che rinnega la realtà, o meglio, è del tutto incapace di interpretarla e perfino di vederla. 

Adam McKay spiega come il copione si sia evoluto durante la lavorazione: “Nel bel mezzo della realizzazione di questo film, abbiamo dovuto chiudere causa COVID, e non ho preso in mano la sceneggiatura per tipo quattro o cinque mesi, e quando l’ho finalmente presa in mano e l’ho letta, mi sembrava quasi un copione diverso. Riguardava interamente il modo in cui le nostre linee di comunicazione sono state sfruttate, rotte, distorte e manipolate. Mi ha entusiasmato in un modo che non mi aspettavo, che non si trattasse solo del clima, non solo del COVID, non solo dell’inquinamento, della disparità di reddito, della violenza, qualunque cosa tu voglia pensare – riguarda il fatto che noi non siamo più davvero in grado di parlarci in modo pulito e chiaro”.

Il regista spiega anche che il punto di vista è americano, nasce cioè dell'osservazione di quello che è successo negli Stati Uniti negli ultimi anni, ma può benissimo essere allargato alla realtà del mondo occidentale: “Lo vediamo da un po’ di tempo qui negli Stati Uniti e anche in una certa misura in tutto il mondo, che c’è questa sensazione di persone che non vogliono sentire cattive notizie”, continua il regista. “Le notizie devono essere piacevoli o stimolanti. Gran parte della nostra cultura è diventata un argomento di vendita, quindi l’idea, “Non guardare in alto, evita la verità che sta arrivando”, ho pensato che fosse in qualche modo appropriata. E allude alle comete, e mi è piaciuto che appaia nel film verso la fine”.


05/08/21

A Los Angeles una estate in compagnia di Alberto Sordi con l'Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles - 4 film streaming gratis



L'Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles
propone "Un'estate con Alberto Sordi", la proiezione di quattro film del grande attore romano, la cui carriera ha attraversato sette decenni e lo ha fatto affermare come un'icona del cinema italiano nel mondo, sia nella commedia che nel dramma leggero.

Tutti i film saranno proiettati per tre giorni consecutivi. 

Si parte il 6 agosto con 'Un Americano a Roma' per la regia di Steno, la storia di un ragazzo che va pazzo per qualsiasi cosa arrivi dagli Usa. La sua vita e' una parodia del vero stile di vita americano che lui non puo' avere. Il sogno di Nando e' visitare gli Stati Uniti, cosi' sale in cima al Colosseo e minaccia di suicidarsi se l'Ambasciata americana non gli dara' il visto.

A seguire il programma prevede la proiezione il 13 agosto de "I vitelloni", storico film diretto da Federico Fellini che racconta un anno della vita di un gruppo di sfaccendati di un piccolo paese che faticano a trovare un significato alle loro vite. 

Il 20 agosto e' la volta de "Il Moralista" di Giorgio Bianchi, interpretato da Alberto Sordi e Vittorio de Sica, una dura satira contro i sostenitori della morale sessuale tradizionale e gli sfruttatori. 

Il 27 agosto si chiude con "ll Vigile" di Luigi Zampa. 

L'Istituto di cultura propone anche una introduzione online sulla carriera di Sordi curata da Alessandro Ago, Direttore programmazione e progetti speciali presso la USC School of Cinematic Art.



 (ANSA). AU 04-AGO-21 12:21 SXR

14/12/20

E' morto John Le Carré, maestro assoluto della Spy-Story


In 'Una spia che corre sul campo', uscito poco piu' di un anno fa, aveva raccontato gli anni della Brexit, immaginando un'alleanza tra i servizi segreti di Londra e l'America di Trump con il duplice scopo di minare le istituzioni democratiche europee e smantellare il sistema internazionale dei dazi. 

"E' mia convinta opinione che per la Gran Bretagna, per l'Europa e per la libera democrazia in tutto il mondo, l'uscita della Gran Bretagna dalla Ue al tempo di Trump e la conseguente dipendenza senza riserve sugli Stati Uniti in un'era in cui gli Usa hanno imboccato la strada del razzismo istituzionale e del neo-fascismo e' un disastro senza precedenti", aveva fatto dire a uno dei personaggi del romanzo. 

E per manifestare contro la Brexit era sceso in piazza, John Le Carre', maestro della spy story acclamato nel mondo, celebre per le sue storie di spionaggio intrise di realismo e critiche nei confronti della societa' moderna, dalla Guerra Fredda ai fallimenti della globalizzazione, morto all'eta' di 89 anni. 

Vero nome David J. M. Cornwell, nato a Poole, nella regione inglese del Dorsetshire, nel 1931, Le Carre' insegna all'universita' di Eton, prima di diventare un funzionario del ministero degli Esteri britannico ed essere reclutato dall'MI5 e poi dall'MI6. 

Dall'esperienza nei servizi segreti predera' spunto per creare il personaggio di George Smiley, leggendario protagonista di numerosi suoi romanzi.

L'esordio, in quell'anno, e' con 'Chiamata per il morto', poi verra' 'Un delitto di classe', ma sara' la sua terza fatica letteraria, 'La spia che venne dal freddo', uscito nel 1964, a regalargli la fama planetaria. 

Oltre 20 milioni di copie vendute nel mondo, racconta la storia di Alec Leamas, agente britannico trasferito nella Germania dell'Est, che sara' interpretato sul grande schermo da Richard Burton nel primo di una lunga serie di adattamenti delle sue opere, tra cinema e tv. 

Basso, tozzo, occhiali spessi, paranoico, ma dotato di intelligenza acuta, una sorta di anti James Bond, come lo descrive lo scrittore in 'Candele nere' (1962), Smiley resta l'eroe preferito di Le Carre'. 

Ne La Talpa (1974) questo formidabile ufficiale dei servizi segreti smaschera una talpa sovietica infiltrata nelle sue fila. 

I sequel, 'L'onorevole scolaro' e 'Tutti gli uomini di Smiley', vengono portati in tv e al cinema con Gary Oldman nel ruolo di Smiley. 

Tra gli altri romanzi celebri, 'La tamburina', 'La spia perfetta', 'La casa Russia', 'Il direttore di notte', diventato di recente un serial di successo (con il titolo originale The Night Manager) con Tom Hiddleston e Hugh Laurie

Con la fine della Guerra Fredda nel 1991, Le Carre' mette alla berlina nelle sue opere gli eccessi del nuovo ordine mondiale costruito sulle rovine del muro di Berlino: mafia, traffico di armi e droga, riciclaggio di denaro e terrorismo. 

Sono gli anni di 'Il sarto di Panama' e 'Il giardiniere tenace', approdato anche al cinema, che denuncia gli abusi delle multinazionali farmaceutiche in Kenya. 'Il nostro traditore tipo' e 'Una verita' delicata' tracciano una satira feroce dei padroni del mondo e delle manovre costruite nei salotti di ambasciate, ministeri e banche. 

Negli ultimi Le Carre' ha scelto una vita ritirata, tra Cornovaglia e Hampstead. Sposato due volte, ha avuto quattro figli e tredici nipoti. 

Nel 2011 ha lasciato in eredita' tutti i suoi archivi alla Bodley Library, fondata all'inizio del XVII secolo a Oxford, dove ha studiato lingue negli anni '50. "Per Smiley, come per me, Oxford e' la nostra casa spirituale", spiega. "E mentre ho il massimo rispetto per le universita' americane, la Bodley Library e' il luogo dove riposerei il piu' felice possibile". 

"John Le Carre' e' scomparso a 89 anni. Questo anno terribile ha portato via un gigante della letteratura e uno spirito umanitario". Cosi' lo scrittore americano Stephen King ha reso omaggio su Twitter, all'autore di La spia che venne del freddo. 



22/05/20

Roma e i romani secondo Federico Fellini, una sintesi geniale


Nel centenario della nascita, vale la pena tornare a occuparsi di Federico Fellini.

Recentemente, tra le sue vecchie interviste, ho scoperto quella che per me è la più perfetta definizione dei romani (quelli veri, quelli che quasi non esistono più) data da uno che non era romano e che poi è diventato il più romano di tutti.

La riporto qui si seguito:

"Roma è una città di bambini svogliati, scettici e maleducati: anche un po' deformi, psichicamente, giacché impedire la crescita è innaturale. Anche per questo a Roma c'è un tale attaccamento alla famiglia. Io non ho mai visto una città al mondo dove si parli tanto dei parenti. 'Te presento mi' cognato. Ecco Lallo, er fijo de mi' cugino'. 

E' una catena: si vive tra persone ben circoscritte e ben conoscibili, per un comune dato biologico. Vivono come nidiate, come covate... 

E Roma resta la madre ideale, la madre che non ti obbliga a comportarti bene. Anche la frase molto comune. 'Ma chi sei? Nun sei nessuno!' è confortante. Perché non c'è solo disprezzo, ma anche una carica liberatoria. Non sei nessuno quindi puoi essere tutto. 

Insultata come nessun'altra città, Roma non reagisce. Il romano dice: ' Mica è mia, Roma.' Questa cancellazione della realtà che fa il romano, quando dice: 'Ma che te frega!", nasce forse dal fatto che ha da temere qualcosa o dal papa o dalla gendarmeria o dai nobili. Egli si in chiude in un cerchio gastrosessuale.

Onore al maestro.