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07/09/09

Psicanalisi e felicità.


Mi è venuto in mente, guardando le puntate della seconda serie di un bellissimo prodotto per la tv dell'americana HBO, "In Treatment". Si tratta di un serial - che nasce da un'idea della tv israeliana - che vede al centro uno psicoanalista, il quale in ogni puntata - della durata di 30 minuti - riceve nel suo studio un diverso paziente, 'in terapia'.

Il povero analista - che deve fra l'altro fare i conti con i disastri della sua vita personale (ha tre figli e un matrimonio entrato in crisi proprio a causa dell'innamoramento per una giovane paziente) - deve affrontare i casi più disparati: nella prima serie erano una ragazza avvenente e provocante, in crisi; un 'eroe di guerra' dell'Iraq; una coppia in crisi matrimoniale; nella seconda una ragazza malata di cancro, una quarantenne in crisi per assenza di maternità, un anziano manager.

Guardando questa serie mi sono reso conto di come - meglio non si potrebbe - la psicoanalisi stessa sia ormai entrata in crisi, nel nostro mondo occidentale. La speranza - pretesa - di curare le ferite e i dolori dell'anima attraverso lo scioglimento dei nodi psicologici, e di raggiungere una pienezza di senso, e di felicità, in gran voga fino a un trentennio fa - si è oggi alquanto ridimensionata.

Intendiamoci: l'analisi è una cosa seria - specie quando gli analisti sono seri e preparati - e moltissime persone sono state letteralmente 'salvate' da una terapia psico-analitica.

Ma i dolori, le ferite, le mancanze, soprattutto le RISPOSTE alla mancanza di senso che sentiamo spesso nelle nostre vite, non possono quasi mai essere risolte solo da un trattamento psico-analitico.

In "in treatment" non a caso, regna l'infelicità diffusa: quella dei pazienti, che ricavano soltanto frustrazione dalle loro speranze di 'guarigione', e soprattutto quella dell'analista, che sperimenta la sua inadeguatezza, inutilità, perlopiù aggravata dalla sofferenza altrui.

Qualcuno mi disse un giorno che la psico-analisi non è altro che una 'confessione' laica, cioè l'equivalente del sacramento della Confessione, naturalmente de-sacralizzata, e divenuta anzi un rito laico, di assoluzione o auto-assoluzione (o se preferite di riconciliazione o auto-riconciliazione).

Non so se questo sia vero o no. Vero è, indubitabilmente, che le scienze psico-analitiche hanno avuto un incredibile ed esponenziale boom concomitante con l'entrata in crisi verticale - in occidente - del sacramento della confessione, ma più in generale della pratica religiosa.

Fatto sta che mi sembra un buon segno quello che anche la scienza e la pratica psico-analitica comincino ad interrogarsi sulla validità del metodo, e sulla efficacia delle cure, nella riconsiderazione del fatto che "curare" i problemi di una persona, della sua vita, delle sue relazioni, del suo carattere, delle sue vicissitudini, non può mai risolversi semplicemente in una operazione di tipo 'meccanico'.

Esiste qualcosa, dentro di noi, che non si può spiegare (e quindi curare) soltanto sulla base di procedimenti psichici. Siamo fatti (anche) di un 'quid' che sfugge ad ogni analisi, ad ogni studio, esame, approfondimento, giustificazione, evidenza. Anzi, spesso è proprio quel 'quid' che ci fa stare così male.

E' il centro del nostro 'Sè', come lo chiamava Carl Gustav Jung. Quella voce che parla anche quando non vogliamo sentirla. La psicoanalisi va benissimo per cercare di stare meglio. Ma la guarigione, la vera guarigione, siamo soltanto noi - raggiungendo quella parte di Sè così profonda (eterna?), che sa così tanto di noi e della nostra storia - che possiamo darcela.