22/10/22
E' morto a 93 anni Mc Divitt, l'astronauta dell'Apollo 9 che fu il primo a vedere nello spazio un UFO
30/11/21
Quante fotografie furono scattate sulla Luna durante la missione Apollo 11? E chi le scattò?
Neil Armstrong durante una simulazione con la EVA |
Le prime foto della Luna scattate sulla Luna erano state trasmesse dal lander sovietico Luna 9 nel 1966, ma erano sgranate e poco chiare. La NASA stava invece lavorando per avere immagini sempre più definite e nel 1962 aveva iniziato una collaborazione con Hasselblad, un’azienda svedese fondata dall’ingegnere Victor Hasselblad che negli anni Cinquanta e Sessanta fabbricava le macchine di medio formato più utilizzate dai fotografi professionisti: le Hasselblad stavano in una mano, avevano componenti intercambiabili ed erano costruite con lenti Zeiss, considerate eccellenti.
Fotografare la Luna sulla Luna sarebbe stato però un po’ più complicato. L’ottima risoluzione delle immagini che la Hasselblad era capace di scattare e la praticità con cui permetteva di cambiare rullino la rendevano pratica e funzionale, ma alla NASA serviva un corpo macchina capace di resistere a temperature molto rigide, perfettamente funzionante nonostante il vuoto e comodo da usare per un uomo coperto da capo a piedi da una tuta pesante 100 chilogrammi. Così i tecnici di Houston e gli ingegneri svedesi cominciarono a modificare minuziosamente ogni piccolo dettaglio.
Quando il 20 luglio 1969 il modulo Eagle toccò la superficie della Luna, Neil Armstrong e Buzz Aldrin impiegarono circa due ore e mezza per compiere la cosiddetta passeggiata lunare (Extra Vehicular Activities, EVA). Il programma delle operazioni di documentazione, rilevazione e raccolta degli oggetti considerati di interesse era stato dettagliatamente pianificato e gli scienziati di Houston avevano previsto che la documentazione fotografica dell’orbita e del suolo lunare avrebbe richiesto una strumentazione complessa.
Per questo l’Apollo 11 era stato equipaggiato con trentatré rullini e sette macchine fotografiche differenti. C’erano anche la Kodak Close-up Stereoscopic Camera, commissionata solo sette mesi prima della missione, e ben quattro Hasselblad.
Solo la Data Camera però era stata progettata per essere perfettamente funzionante anche fuori dalla Eagle: fu equipaggiata con un portapellicola con rullino a colori, si accendeva semplicemente premendo il grilletto montato sull’impugnatura ed era allacciata alla tuta di Neil Armstrong.
La praticità dei corpi macchina rese molto facile per gli astronauti cambiare i portapellicole e montarli di volta in volta su modelli diversi: per questo motivo – come ha ricostruito Eric M. Jones, fondatore dell’Apollo Lunar Surface Journal, un archivio online della NASA che raccoglie la documentazione delle operazioni lunari dal 1969 al 1972 – non è possibile ricostruire con precisione il corretto ordine di scatto delle fotografie.
I rullini usati per fotografare la Luna sulla Luna sono stati tre (due a colori e uno in bianco e nero), mentre quelli caricati sulle Hasselblad sono stati in tutto nove e hanno scattato 1.407 fotogrammi.
Tutte le macchine fotografiche usate durante la missione Apollo 11 sono rimaste sulla Luna, per liberare spazio sulla capsula lunare e portare sulla Terra ventidue chili di rocce lunari che gli scienziati della NASA avrebbero poi analizzato.
I nove rullini usati, invece, arrivarono al centro di controllo di Houston a mezzogiorno del 25 luglio 1969. Restarono nel laboratorio per la decontaminazione per 47 ore. Una volta sviluppate e duplicate, le fotografie scattate dalla missione Apollo 11 furono presentate alla stampa il 12 agosto 1969.
Ciò che è poco noto, è che la quasi totalità delle foto della missione Apollo 11 che ritraggano un astronauta hanno Buzz Aldrin come soggetto, poiché normalmente era Armstrong a usare la macchina fotografica.
Neil Armstrong, il primo astronauta che ha messo piede sul suolo lunare, è ritratto in due foto di scarsa qualità e in un'altra, famosissima e assai suggestiva, in cui egli appare riflesso sulla visiera della tuta spaziale di Aldrin, che pubblico qui di seguito.
30/04/21
La morte di Michael Collins e la faccia nascosta della Luna
Rendo omaggio alla scomparsa del grande Michael Collins, uno degli astronauti più importanti nella storia delle missioni spaziali, morto pochi giorni fa, con questo brano a lui dedicato dal mio libro, Le rovine e l'ombra, Castelvecchi 2018.
È la troppa luce
che rende impossibile distinguere le ombre e le rende misteriose e spaventose.
Il simbolo dell’oscurità si manifesta in
ogni notte, dall’alba dei tempi: ogni notte, nei secoli e nei millenni da molto
tempo prima che la razza umana si affacciasse sul pianeta e prima ancora che i
nostri antenati primati cominciassero a sfidare la legge della gravità,
ergendosi sulla linea verticale della propria colonna vertebrale, la luna –
l’unico satellite terrestre – mostrava l’unica faccia, nascondendo agli occhi
degli umani il suo lato oscuro.
Per motivi difficilmente comprensibili a chi
non è pratico delle leggi di astrofisica, l’ordine dell’universo ha stabilito
che nel complicato moto di rivoluzione intorno alla Terra e di rotazione sul
proprio asse, il satellite lunare mostri agli abitanti del pianeta – di tutti
gli abitanti, di qualsiasi continente, di qualunque latitudine o longitudine –
sempre la stessa faccia.
È una legge che i fisici chiamano rotazione sincrona
: il periodo di rivoluzione della Luna intorno alla Terra è infatti di 27,32
giorni ed è assolutamente identico al suo periodo di rotazione. Il doppio
movimento fa sì che dalla Terra sia impossibile osservare il lato nascosto del
satellite (26) che tuttavia non è oscuro, come lo si definisce, in quanto è
illuminato dalla luce del sole anche in misura leggermente maggiore di quello
che è rivolto al nostro pianeta, solo che noi non possiamo vederlo.
Da alcuni secoli, da quando cioè, si è avuta
cognizione che la Luna – come la Terra -
è rotonda, e gira sul proprio asse, gli uomini hanno provato ad immaginare quel
lato oscuro, mai visibile e lo hanno popolato di sogni, aspettative e timori,
come sempre riguardo alle cose che non si mostrano.
L’esplorazione della faccia oscura della
Luna è avvenuta in tempi molto recenti, durante l’epica corsa alla conquista
dello spazio, che negli anni della Guerra Fredda del Novecento, portò Stati
Uniti ed Unione Sovietica a concepire e realizzare incredibili missioni, sempre
più ardimentose e tecnologicamente avanzate, culminate con la conquista del
suolo lunare, compiuta dall’Apollo
11.
Le prime immagini in assoluto della faccia
oscura della Luna furono inviate da una sonda automatica russa, denominata Luna 3
e furono elaborate dal centro di controllo di Baikonur, il 7 ottobre del 1959.
L’inizio
dell’esplorazione spaziale coincise dunque con il primo tabù violato, nella
storia dell’umanità. Esaminando le prime
sbiadite fotografie, i tecnici russi si resero conto che la superficie nascosta
del satellite si mostrava simile a quella visibile, seppure diversa per
l’enorme numero di crateri, l’aspetto molto più accidentato e privo degli
estesi mari presenti sull’altro lato.
Dopo altre immagini di più alta qualità
scattate sei anni più tardi da un’altra sonda sovietica – la Zond 3
– era ormai tempo che occhi umani potessero finalmente vedere quel luogo
inaccessibile: accade questa volta con
una sonda – e un equipaggio – americani, l’Apollo
8,
partito da Cape Canaveral il 21 dicembre 1968, nell’anno fatidico di grandissimi
cambiamenti sociali.
La missione (considerata in assoluto la più
importante di quelle spaziali, dopo quella dell’allunaggio, dell’Apollo
11,
proprio perché fu la prima con equipaggio umano che arrivò ad avvicinare e a
circumnavigare per la prima volta il satellite) contava su tre uomini esperti:
Frank Borman, William Alison Anders e Michael Collins. Tre giorni dopo il
lancio, nella mattina della vigilia di natale, la sonda entrò nell’orbita lunare, in diretta
televisiva e mentre gli astronauti a bordo leggevano ad alta voce le prime
parole della Bibbia, dal primo libro della Genesi.
Quella sera stessa, gli occhi dei tre membri
dell’equipaggio furono dunque i primi, umani a gettare uno sguardo oltre l’ignoto.
Senza poterlo comunicare in diretta: ogni
volta infatti che durante la loro orbita, la navicella spaziale sorvolava il
lato oscuro della Luna, il centro spaziale perdeva il contatto radio. Per circa
30 minuti – tanto durava il sorvolo dell’emisfero nascosto – gli astronauti
erano soli di fronte al cosmo, completamente isolati dalla Terra.
All’uscita dal cono d’ombra – che fece
tremare il centro di controllo – William Anders scandì le celebri parole: «la
parte posteriore si presenta come se fosse un mucchio di sabbia in cui i miei
figli hanno giocato per qualche tempo. È tutta picchiettata, senza definizione,
solo un sacco di dossi e di buche».
Un altro brivido attraversò la sala
controllo, quando il capitano dell’equipaggio accese i motori per uscire
dall’orbita lunare, operazione anche questa che fu effettuata sorvolando il
lato nascosto, e quindi senza contatto radio con la terra, con gli astronauti
che dissero poi – nelle missioni seguenti - di aver ascoltato durante quel
tempo uno strano
suono. (27)
A tutto questo, i giornali e le televisioni
dell’epoca diedero, com’è logico, un’enorme eco. Per la prima volta venivano violate le colonne
d’ercole dell’universo, così sembrava, in un facile parallelismo con l’impresa
di Cristoforo Colombo e delle sue navi, di cinque secoli prima.
Nel clima di quegli anni, le imprese
spaziali influenzarono prepotentemente il costume, il cinema, la musica, la
letteratura. Il mondo sembrava sull’orlo
di un cambiamento rapidissimo, che avrebbe portato chissà quali imprevedibili
sviluppi, perfino una veloce colonizzazione del vicino spazio (poi dimostratasi
ben più complessa di quanto si immaginava).
Space Oddity
fu pubblicato da David Bowie soltanto sette mesi dopo (luglio 1969); mentre
appena otto mesi prima della missione dell’Apollo 8, il 6 aprile del 1968
Stanley Kubrick aveva presentato alla stampa 2001: A Space Odyssey.
Quattro anni dopo l’impresa di Borman,
Anders e Collins – nel maggio del 1972 -
a simbolico suggello di quella prima epopea culminata con l’allunaggio
del 1969, un gruppo inglese, i Pink Floyd, si riuniva nelle sale di registrazione
londinesi di Abbey Road per il concepimento di un nuovo album che sarebbe stato
significativamente chiamato The
Dark Side of the Moon, destinato a diventare una
pietra miliare della musica contemporanea (28).
Tratto da: Fabrizio Falconi - Le rovine e l'ombra - Castelvecchi Editore, 2018
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fonte Alessandra Baldini per ANSA